Foto di Tommaso Mitsuhiro Suzude
Quella che state per leggere è un’intervista davvero speciale. Non riguarda solo l’Equitazione naturale, Valentina e i meravigliosi cavalli del Red Rose Ranch. Riguarda ognuno e ognuna di noi, come dovremmo comportarci nei confronti della vita, sempre. Quando osserviamo la natura e le sue splendide creature, quando interagiamo con esse, quando pensiamo che debbano parlare il nostro stesso linguaggio, possiamo tornare alla storia che tra poco scoprirete e ricordarci quale davvero sia la vera realtà, la vera natura di ogni cosa. L’ascolto, l’empatia, il rispetto sono le fondamenta per poter vivere in armonia con noi stessi e con tutto ciò che ci circonda. Il legame ancestrale con i cavalli, nostri compagni nel viaggio della vita da secoli, ci mostra ancora una volta come vivere e come diventare persone migliori. Vi auguro una splendida lettura e vi consiglio, di cuore, di scoprire di persona il magico, entusiasmante e commovente universo del Red Rose Ranch.
Quando è nato dentro di te il desiderio di abbracciare e diffondere l’ “Equitazione naturale”?
La prima volta che ho cavalcato ero piccola e ho subito sentito una forte emozione. Da allora non ho più smesso e come tutti i bambini che adorano questa disciplina ho iniziato a frequentare i maneggi. All’epoca avevo un pony che viveva al maneggio di Joppy il Red Rose Ranch, vicino a Scascoli un borgo del Comune di Loiano vicino a Bologna, dove avevano la casa i miei nonni e dove trascorrevo l’estate. Era un berbero grigio, furbo e un po’ ribelle, come tutti i pony. Si chiamava Billy the Kid. Lui mi ha insegnato a pensare velocemente, a non dare niente per scontato, a saper prevedere le reazioni, a calmarlo calmando prima me stessa e soprattutto mi ha insegnato a cadere e a rimontare in sella senza troppe storie perché spesso e volentieri se decideva che voleva brucare l’erba o farsi il bagno nel fiume mi scaricava con una bella sgroppata… così anch’io lo seguivo! Era davvero il mio specchio e gli ho voluto un gran bene. Nel periodo invernale invece vivevo a Monza in provincia di Milano e inevitabilmente per cavalcare dovevo frequentare i classici maneggi con i cavalli scuderizzati. Nonostante fossi solo una bambina mi era chiara la differenza di trattamento degli animali. Il mio pony viveva libero nel prato, nel bosco, aveva un suo branco ed era felice. Gli altri cavalli erano rinchiusi in fila, carcerati senza colpa, nei loro piccoli box. I loro sguardi erano completamente diversi. Come stavo meglio io fuori dalla scatola del mio appartamento in città era chiaro per me che anche anche il cavallo doveva stare fuori nella natura, all’aria aperta. Io stessa avevo lo sguardo di quei cavalli dentro ai box, ogni volta che finiva l’estate e dovevamo rientrare in città. Quando ho avuto l’occasione ho salutato tutto e nel 2001 sono venuta a vivere qui.
Come sei diventata proprietaria del Red Rose Ranch?
Questo luogo è nato per volontà di Giovanni Magli detto Joppy che, insieme alla sua famiglia, ha lasciato Bologna per venire a vivere nella terra dei nonni, per poter coltivare la sua passione per gli animali, per la natura e per queste valli stupende che ha conosciuto palmo a palmo girando a cavallo. Avendo il mio pony nel suo ranch io e lui costruimmo negli anni una grande amicizia che poi, quando mi trasferii qui, si trasformò in una bellissima relazione. Abbiamo sempre condiviso le stesse passioni e gestito il Red Rose Ranch insieme finché nel 2006 Joppy purtroppo è venuto a mancare all’improvviso. Ci siamo salutati la sera e lui la mattina non c’era più. Sarei potuta tornare a Milano ma sentivo che quello non era più il mio mondo. Così decisi di provare a portare avanti quello che lui aveva costruito e che insieme avevamo amato e sognato fino a quel momento. Ho cercato di seguire gli stessi principi che lui aveva impostato per gestire il ranch e i cavalli e in cui anche io credevo. Il cuore di tutto era cercare di dare ai cavalli una condizione quotidiana di vita che fosse vicina il più possibile a quella naturale, trovare un compromesso nell’interazione con loro che fosse il più possibile nella loro direzione. Loro ci hanno affiancato e servito per migliaia di anni. Se ci pensi il mondo l’hanno fatto a cavallo. Se non lo avessimo addomesticato la storia dell’umanità sarebbe stata diversa. Anche per questo meritano tutto il nostro rispetto. Una curiosità: ancora oggi la potenza del motore viene descritta in base ai cavalli e quando gli indiani d’America videro il treno per la prima volta lo chiamarono “il cavallo di ferro”.
In che modo riesci ad entrare in empatia con loro?
La cosa incredibile è che quando interagiamo ho la sensazione di avere a che fare con una creatura che appartiene a un mondo diverso dal mio ma che per qualche ragione “senti” e dici “ok stiamo insieme, facciamo qualcosa insieme”. Questa connessione avviene anche stando a terra non per forza cavalcandoli. Quasi nessuna scuola di equitazione purtroppo lo insegna ma il dialogo inizia proprio da terra: ci si studia, ci si legge e ci si comprende vicendevolmente. In quei passaggi di gioco a terra si instaura il legame di fiducia reciproca che deve esserci prima di montare in sella. Così quando sali sulla sua schiena la sensibilità è affinata, la conoscenza è approfondita, lui sente il tuo respiro, le tue emozioni e tu le sue, i tocchi leggeri delle richieste hanno un significato e tutto fluisce in un dialogo armonico che ha qualcosa di magico. Non a caso i cavalli sono perfetti nell’interazione con i bambini. Gli etologi paragonano il cavallo ad un bambino dai 4 agli 8 anni. Le necessità primarie sono le stesse. Inoltre, sono animali sociali, devi tenere conto anche di questo e come i bambini hanno bisogno di una guida per sentirsi al sicuro. È nella loro natura di prede avere paura, ed è in quel momento che, se noi siamo in grado di essere un punto di riferimento, diventiamo importanti per lui. Questa è la vera leadership etologica secondo me. Spesso invece in queste situazioni l’umano diventa parte del problema per il cavallo e non parte della soluzione. Un cavallo non si compra con un pugno di carote. Per conquistare la sua fiducia occorre mettersi in gioco e fare un profondo lavoro su noi stessi, un viaggio stupendo che attraverso il cavallo ci trasforma decisamente in persone migliori allenando in noi qualità straordinarie come l’assertività, la coerenza, la sensibilità, l’umiltà, la pazienza, il pensiero laterale.
Gli indiani d’America così come altre comunità cavalcavano già senza coercizioni. Che cosa ci ha allontanati da questo legame atavico con i cavalli?
Sicuramente l’antropizzazione, cioè il desiderio di utilizzarlo per le nostre necessità e interessi, anziché cercare di comprenderlo, di rispettarlo e di vivere in armonia con lui. La scuderizzazione e la ferratura sono emblematiche di questo distacco. Il cavallo nacque scalzo ma poi l’uomo decise di ferrarlo, un’arte antichissima che risale a più di 2.000 anni fa, quando i romani iniziarono a utilizzarlo a tutti gli effetti come animale da lavoro, sottoposto a sforzi tutt’altro che naturali per lui. Spesso i cavalli dovevano affrontare molte ore di marcia forzata ogni giorno, su strade di ciottoli muovendosi con milizie di 200/300 soldati. Una parte del foraggio l’acquistavano in loco ma per nutrire così tanti cavalli e coprire un fabbisogno energetico adatto agli sforzi fisici a cui erano sottoposti gli animali, iniziarono ad usare i cereali. Trasformarono così un erbivoro in un granivoro. Il cereale era più nutriente, energetico, di più facile stoccaggio e trasporto e aiutava il cavallo a rimanere performante. Il rovescio della medaglia però è che andava a intossicarne il metabolismo. Nei testi antichi la laminite (una grave patologia a carico dello zoccolo equino di cui ancora oggi molti cavalli domestici soffrono) veniva chiamata “il male dell’orzo” perché avevano capito che questo cereale creava problemi ai piedi del cavallo. Risolsero, o meglio mascherarono, questo problema con l’applicazione di un ferro definito “il male necessario”. Nonostante siano passati tutti questi anni la ferratura viene ancora oggi eseguita così. All’epoca non avevano tante alternative: il cavallo doveva funzionare e così funzionava. Oggi le alternative ci sono e la filosofia del Barefoot (piede scalzo) per fortuna è una scelta che molti proprietari fanno e che necessariamente e va di pari passo con la gestione cosiddetta “naturale” del cavallo.
Che cosa comporta per il cavallo la ferratura?
Non gli procura immediato dolore perché è come se tu ti piantassi un ago nella parte della ricrescita dell’unghia ma a lungo andare comporta tante conseguenze e sofferenze. La struttura dello zoccolo si indebolisce inoltre il ferro è rigido e impedisce alla capsula cornea di dilatarsi (elaterio) nel momento di appoggio e carico del peso; quindi, limita anche la circolazione del sangue nell’arto con ciò che comporta in termini di degradazione di tutto il corpo. Il punto ribadisco è che loro sono nati scalzi. Noi qui al Red Rose Ranch abbiamo la possibilità di lasciarli senza ferri perché vivendo in branchi, in ampi paddock di terreni misti, alimentandosi solo con foraggio di primo taglio senza nessuna integrazione di cereali e con una corretta gestione e pareggio dello zoccolo, i loro piedi sono sani e si sono ben adattati. Considera che il piede equino è un miracolo evolutivo meraviglioso, è progettato per adattarsi molto rapidamente al terreno. In natura i cavalli selvaggi percorrono anche 60 km al giorno su terreni misti per cercare cibo e acqua. Un puledro dopo pochi minuti che è al mondo deve essere in grado di seguire il branco nei suoi spostamenti. I suoi piedini sono coperti di lamelline morbide per non ferire la mamma mentre viene al mondo ma pochi minuti dopo i suoi piedi sono in grado di camminare su sassi e rocce. Non è meraviglioso? La forma e la durezza dello zoccolo cambiano in continuazione adattandosi per essere più performanti a seconda del terreno su cui l’animale si muove. Questo è straordinario. Dobbiamo dunque fornire al cavallo la possibilità di muoversi su terreni misti, in un ambiente pulito in modo che i suoi piedi possano adattarsi. La scuderizzazione non va d’accordo col piede scalzo poiché costringe il cavallo a stare fermo a lungo portandolo a calpestare i suoi escrementi.
Come si sono evoluti i cavalli fino ai giorni nostri?
L’ultima parte del loro percorso evolutivo l’hanno fatto nelle steppe della Mongolia dove c’era un filo d’erba ogni venti metri, quindi dovevano muoversi per mangiare. Non c’erano foreste per mimetizzarsi per cui si sono sviluppati dei cavalli con un’altra strategia di difesa: non più il mimetismo ma principalmente la fuga per salvarsi dai predatori. Sono diventati più alti, con arti più lunghi, più veloci e hanno sviluppato zoccoli duri e compatti. Poi c’è stato l’intervento umano che come sempre altera tutto. Quando l’uomo ha visto il cavallo, ha osservato la sua forza e ne ha comprese le grandi capacità, ha capito che poteva essere per lui di grande utilità e di grande aiuto per lavorare e muoversi. Hanno selezionato i soggetti più robusti per i lavori pesanti e i più veloci per gli spostamenti. Hanno poi selezionato anche l’eleganza nei movimenti, le proporzioni armoniose del corpo, così siamo arrivati al cavallo odierno che per adattamento e intervento umano è cambiato, e noi con lui. Oggi ci sono razze di cavalli selezionati per una grande varietà di discipline. Ha fatto parte della nostra storia e ancora oggi, anche se in modo diverso, è così. Un aspetto interessante che non tutti sanno: noi abbiamo i pantaloni perché i mongoli hanno inventato questo tipo di abbigliamento per poter montare a cavallo. L’esercito romano ha visto i mongoli con i pantaloni e hanno adottato anche loro questo abbigliamento. Sono stati i mongoli i primi domatori di cavalli. Anche le staffe pare siano una loro invenzione.
Tu cosa hai percepito di nuovo mettendo in pratica con loro questo approccio?
Stanno più volentieri con noi, gestiscono meglio le loro emozioni e hanno meno reazioni, dunque lavori più in sicurezza. Quando il rapporto cessa di essere un rapporto di dominanza, dove uno prevarica l’altro, l’animale diventa più incline alla collaborazione e questo fa sì che sia più sicuro il lavoro insieme perché diminuisce anche il rischio di reazione da parte del cavallo che potenzialmente potrebbe essere un pericolo essendo un animale di 400 kg. Se dialoghi con lui partendo dall’ascolto se ne rende conto, lo apprezza e comunica con te. Se cerchi di capirlo, cerchi di chiedere in maniera gentile, si instaura un dialogo di fiducia e rispetto. Queste due sono le chiavi. I cavalli non hanno bisogno di noi, siamo noi che abbiamo bisogno di loro. Se il rapporto è basato sul dominio non si può costruire una relazione basata sul rispetto e sull’apprendimento. Pensiamo alle relazioni umane: se io decido che tu devi fare qualcosa e ti provoco fino a portarti allo sfinimento tu non sei nelle condizioni di apprendere. Se metto pressione senza aiutarti a comprendere cosa voglio e tu finisci col reagire per sottrarti al fastidio, non ti sto insegnando nulla. Noi non abbiamo ancora capito che dobbiamo parlare la sua lingua, preservare la sua naturale curiosità, capire in che modo interagire con lui. Dobbiamo osservarli, cercare di comprenderli, andare nella direzione del loro linguaggio. Occorre fermarsi, osservare e soprattutto imparare ad ascoltare una lingua che non è fatta di parole.
Perché secondo te l’essere umano fa fatica ad aprirsi all’ascolto nei confronti della natura?
Perché ti devi mettere in gioco davvero e guardare dentro te stesso, devi essere capace di dire: “ok ho fatto cazzate fino all’altro ieri, butto via tutto e ricomincio”. E le persone non lo fanno facilmente, invece è la più grande opportunità che hai. Capire che si può fare in un altro modo, studiare e provarci, riconoscendo anche di aver sbagliato. In questo senso credo che le persone facciano fatica ad essere umili. I cavalli ci danno l’opportunità di impararla.
Vi siete chiesti come poter diffondere il più possibile questa meravigliosa filosofia?
Questo metodo di lavoro con i cavalli non è una novità. Alcuni dei principi a cui facciamo riferimento oggi nella cosiddetta “Equitazione Naturale”, sono antichissimi, ne parlava addirittura Senofonte. Dai greci ai giorni nostri, passando per la rivoluzione equestre apportata dal nostro Colonnello Caprilli, troviamo assonanze nei testi del grande cavaliere Nuno Olivera, inoltre emergono gli stessi principi nella “Scuola della Leggerezza” del Maestro Philippe Karl in Francia e potrei citarne molti altri. L’equitazione in Italia però ha avuto tempi bui in cui tutte queste grandi saggezze e conoscenze si stavano perdendo. Negli anni 90 l’equitazione naturale è stata sdoganata nel nostro paese come se fosse una assoluta novità. E questo fu una rivoluzione ma come tutte le cose che vengono proposte come innovative e alla portata di tutti, in modo commerciale e con troppa leggerezza senza farne comprendere la profondità, ha fatto i suoi bei danni. Se ne sono viste di tutti i colori, sempre a discapito del cavallo. Tutti erano diventati addestratori, indistintamente. Quando uno strumento lo semplifichi per renderlo troppo accessibile può diventare rischioso, come dare un bisturi a una scimmia. Dietro ad un percorso del genere c’è una formazione immane, che prevede l’acquisizione di competenze specifiche attraverso uno studio approfonditissimo fatto di conoscenza del cavallo a 360 gradi e di esperienza sul campo. A me non interessa fare i numeri, tipo 200 allievi. Tante persone hanno iniziato e poi se ne sono andate. Questa roba qua non è per tutti. È per chi la vede così e crede in questo. È per chi lo sente veramente dentro. Questa pratica, questo approccio deve essere una filosofia e un modo di vivere.
Vado a prenderti la mia cavallina e ti faccio vedere qualcosa…
Cosa hai provato quando hai interagito con lei? Vedere il vostro legame, il vostro amore profondo basato sul rispetto, sulla fiducia che avete costruito l’una verso l’altra mi ha profondamente commossa. Come dicevi tu nasce qualcosa di magico, unico.
Lei è con me da quando aveva 1 anno e 4 mesi. Quando lavoriamo insieme è come interagire con mio figlio: la guardo e so come si sente, cosa le passa per la testa, la conosco come conosco me stessa e, devo dire che ci assomigliamo moltissimo. Direi indubbiamente che lei è la parte migliore di me. Mi mostra con grande serenità anche gli aspetti di me che non vorrei vedere. Mi ha aiutato in tutto, ha sempre fatto del suo meglio con una pazienza degna del Buddha. Joppy se n’è andato e mi ha lasciato i suoi cavalli e i cavalli mi hanno salvato la vita risollevandomi e rimettendomi in piedi in uno dei momenti più terribili del mio cammino. Per quanto io possa fare per loro non riuscirò mai a sdebitarmi. Spero di riuscire a trasmettere agli altri, far capire alle persone che si avvicinano all’equitazione naturale che il cavallo non è solo un animale da diporto. C’è molto, molto di più se siamo pronti a vederlo. Come tutti gli animali è un amico, un compagno di vita, un insegnante straordinario. Dunque per chi vuole davvero conoscersi e conoscere il cavallo e vuole partire con lui per questo viaggio bellissimo io e tutti i cavalli del Red Rose Ranch siamo qui pronti ad accompagnarvi.
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