Di Maria Grazia Baruffaldi
Kia Orana Cook Islands ovvero Benvenuti si legge all’aeroporto di Rarotonga, l’isola più grande delle 15 che compongono l’arcipelago delle Cook, nell’Oceano Pacifico meridionale, quel lembo di terra che noi chiamiamo Polinesia neozelandese.
La leggenda narra che di accoglienza ce ne fu poca quando la prima nave commerciale attraccò sull’isola per rifornimenti. Pare infatti che l’equipaggio fu ucciso e la moglie del comandante mangiata. Storie però del tutto infondate e la cui dubbia verità è confermata dalla meravigliosa solarità e ospitalità che questo luogo emana. Qui non è un cliché portare le collane di frangipane che vengono offerte all’arrivo sull’isola: oltre alle donne in scooter coi bambini, le indossano le commesse nei negozi e al mercato, le impiegate in banca e negli uffici tutte con i fiori a corona fra i capelli o intorno al collo. La domenica è uno spettacolo passare davanti alle chiese, dove sostano uomini, donne e bambini vestiti prevalentemente di bianco, con eleganti cappelli e l’immancabile corona di fiori fra i capelli. Le chiese sono davvero tante, circa una ventina tutte appartenenti a vari culti: Protestanti, Cattolici, Assemblea di Dio, Avventisti del 7° giorno, Metodisti, Testimoni di Geova, Chiesa di Gesù e dei santi degli ultimi giorni… Segno che in questo luogo la coesistenza tra diversità regna armoniosa.
Scelsi le Cook per il nostro viaggio perché meno famose di altre isole e non me ne pentii. Amo viaggiare, ben consapevole che il viaggio un tempo era un’esperienza che esigeva una paziente preparazione e grandi abilità organizzative. Lo scrittore inglese Horace Walpole racconta nelle Lettere come attraversò il valico del Moncenisio nel 1739, durante il Gran Tour d’obbligo per i giovani aristocratici:
Ai piedi del Moncenisio fummo costretti a scendere dalla carrozza che venne smontata e caricata a pezzi sui muli. Fummo trasbordati su seggiole montate su un paio di stanghe e riforniti di berretti, guanti, calzerotti di pelle di castoro, pelli d’orso e manicotti…

Tante cose sono cambiate ma preparare un viaggio è sempre esaltante.
Con l’aereo da Los Angeles siamo scesi nel piccolo aeroporto di Rarotonga, dove si incontrano le galline coi pulcini che passeggiano tranquillamente e dove il personale gioca a pallone sulle piste in attesa del prossimo aereo. Nonostante la pioggerellina il clima è piacevole e ti invoglia a passeggiare per scoprire la straordinaria e lussureggiante vegetazione. Qui le bellezze sono inaspettate. Quelle che noi consideriamo piante da appartamento come l’Ibiscus, il Ficus, il Frangipane divengono alberi dai colori luminosi e sgargianti. Regina indiscussa è la palma da cocco insieme alle piante da frutto come la papaia e il mango. A contornare questa natura fanno da sfondo spiagge bianchissime di origine corallina, avvolte dal mare turchese privo di onde poiché abitato da atolli e pesci colorati.
Oltre a questo panorama da sogno, scopro il piacere di gironzolare senza meta per l’isola. È la più grande dell’arcipelago ma di fatto è appena 32 km di circonferenza che si possono percorrere in auto, in scooter o in bicicletta. Il suo monte più alto è 658 metri e in caso di tsunami è proprio verso le parti alte che indirizzano i molti cartelli collocati lungo le strade (tsunami evacuation route). Negli ultimi anni sono proprio isole come queste ad aver risentito di più il cambiamento climatico. Non si tratta solo dell’innalzamento del livello dell’Oceano ma anche la frequenza dei disastri naturali come appunto tsunami, cicloni. Le stagioni sono cambiate e l’intero ecosistema stravolto. Consapevole di questo, del flusso di migrazioni forzate, del rischio alla salute, tra cui la sicurezza alimentare, visitare questi luoghi assume un significato maggiore. Una presa di responsabilità dove il rispetto per ogni cosa diviene un imperativo assoluto.
Riflettendo su quanto sia importante proteggere così tanta bellezza, mi godo dall’alto una vista grandiosa dell’atollo. Qui ho scoperto vari elementi di interesse: la chiesa del primo predicatore cristiano; un piccolo museo con oggetti in vimini, strumenti musicali, fotografie; il Cultural Village che conserva alcune capanne tradizionali maori e ti fa immergere totalmente nella loro cultura con informazioni sulla danza, sulle tecniche della pesca, sulla medicina maori che si basa sull’uso terapeutico di molte piante. La malattia poteva derivare da un’azione compiuta violando una qualche legge tribale o per effetto di un incantesimo e i sacerdoti potevano intervenire o con rimedi spirituali o con la somministrazione di erbe medicinali. Interessante una raccolta di strumenti musicali locali, tra cui un ukulele, trombe ricavate da conchiglie e un flauto da naso decisamente insolito. Le danze maori poi si possono vedere riproposte in molti locali dell’isola.

Ma c’è un’altra caratteristica davvero singolare: in mezzo alle case di legno, tutte piuttosto semplici e con cortili e giardinetti, ci sono delle tombe a piccoli gruppi. Sono presenti anche ai margini delle strade, ma quelle vicino alle case sono particolarmente curate. Sono attratta da questi non-cimiteri e mi fermo spesso a curiosare e a leggere i nomi. Scopro così che ad Avarua, la capitale, c’è una tomba col nome di un italiano, tal Curcuruto, nato in Italia nel 1899 e morto qui nel 1977.
Il tempo vola su queste isole, dove la frenesia sembra bandita: accoglienza, mercati vivaci e colorati, bagni indimenticabili in compagnia dei pesci, relax totale bevendo coconat (latte di cocco), mangiando l’ikamata (pesce crudo marinato nel latte di cocco) e gustando la tanta frutta tropicale fresca, da noi in Italia introvabile così deliziosa.
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