Fotografie di Ester Beatrice Fumagalli
Il treno procede a scossoni, i finestrini abbassati nella vana speranza di rinfrescare la notte tropicale. Dentro le luci al neon, fuori il buio. Ogni tanto una stazioncina, poco più che una panchina e una tettoia, il fischio del capotreno e le urla dei venditori ambulanti, rapidissimi a salire e scendere tra una fermata e l’altra alla ricerca di clienti. Il treno notturno parte ogni sera dall’avveniristica stazione della capitale, diretto a nord.
Dieci ore di viaggio per settecento chilometri, e si sbarca a Chiang Mai città principale della Thailandia settentrionale. È mattino presto, e si viene accolti subito dalla folla degli autisti che si fanno avanti alla ricerca di passeggeri. La città conserva un po’ della quiete del centro rurale che era fino a qualche decennio fa: la pianta quadrata della città vecchia è circondata dalle mura della capitale dell’antico regno di Lanna e dagli onnipresenti canali. Intorno alle mura i frenetici mercati e il nuovo che avanza.
Chiang Mai è anche un importante centro religioso con i suoi numerosi templi e le sue università buddiste. I monaci sfilano dappertutto nei loro sari arancioni, fanno giardinaggio, fanno acquisti, si siedono sui mezzi pubblici nei posti riservati. E può capitare di sedersi all’ombra e conversare con un monaco che condivide il suo sapere a patto di poter esercitare un po’ il suo inglese, peraltro già perfetto.



Mi siedo. Monk Atik ha ventisette anni, e ha deciso di diventare monaco quando ne aveva dodici, sognando una vita semplice e pacifica. Parliamo della sua vita, della pratica buddista, della meditazione che in Thailandia è materia scolastica praticata nel primo quarto d’ora della mattinata: “Le prime volte i bambini si addormentano, ma poi diventa parte della nostra quotidianità. Ogni buddista osservante medita.” Poi tira fuori dalla sua sacca di tela, un ramo spinoso di rambutan e lo poggia sul tavolo. “Buddha dice che le sue verità sono come il frutto del rambutan. Non posso spiegarti la sua dolcezza, devi assaggiarlo e fare la tua esperienza”. Conclusa la poetica divagazione ortofrutticola, gli suona il telefono con insistenza. Almeno quattro telefonate e parecchi messaggi. Lo prendo un po’ in giro, Monk Atik però mi rassicura: il telefono serve solo per studiare e per tenersi in contatto con alcuni amici.
In fondo è anche questo un segno del nuovo che avanza, e che cambia la vita di tutti, in un Paese che procede la sua marcia irregolare verso la modernità e la secolarizzazione. In città e fuori gli esempi si moltiplicano, e così nella massa di motorini e auto parcheggiate un po’ ovunque si aprono all’improvviso i vicoli dove il tempo scorre come congelato. Lo spazio tra le piccole case di legno non è più largo di quello occupato da due persone. Qui il turismo di massa delle isole meridionali non è ancora arrivato, e gli abitanti si affacciano e guardano con occhi sorridenti.
Gli stessi occhi ce li ha Didi, la risoluta piccola ragazza cui vengo affidata per il tradizionale massaggio thailandese al Women’s Massage Center un progetto governativo di reinserimento dedicato ad ex detenute. Non riesco a darle un’età, e non c’è una lingua che ci accomuni. “Madame”, mi chiama, e mi fa salire le scale di legno. Il massaggio thai è una delle forme di medicina tradizionale, violento ma efficace, ed è diffusissimo non solo tra gli stranieri come me, ma anche tra i thailandesi. In tutti i mercati non manca mai lo spazio riservato ai massaggi e l’odore balsamico dell’olio si mescola a quello della frittura e delle salsicce alla griglia. Che qui sono un must.
Basta uscire di qualche chilometro dalla città per dimenticarla completamente: rimane un nastro d’asfalto nella vegetazione tropicale e il cartello “Attenzione, pericolo di attraversamento elefanti” mi ricorda dove sono diretta. All’ Elephant Rescue Park che si occupa del recupero di elefanti domestici maltrattati. I “pet elephants” qui possono terminare in pace la loro vita, affidati alle cure del personale del parco. E non solo. Gli elefanti diventano anche produttori di carta con gli escrementi di questi grandi erbivori si ricavano balle di cellulosa che lavorata diventa carta. Nel rispetto della circolarità. Non ho potuto resistere alla tentazione dell’acquisto: un quadernetto di carta d’elefante campeggia da un mese sulla mia scrivania.
Dopo qualche giorno devo tornare a sud, questa volta in minivan. Nemmeno a farlo apposta, dopo qualche chilometro di strada, risaie e palme, sale un monaco. Come vuole la tradizione, gli viene lasciato il posto accanto all’autista, privilegiato e lontano dalle donne, il cui contatto gli è proibito. Si siede, piega il sari, carica la sua bisaccia. Dopo le presentazioni, si gira verso il sedile posteriore, sorride e mi chiede in inglese: Ci sono molti monaci in Italia?
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