Sono tante le sfide che il perseguimento di uno sviluppo sostenibile ci sta chiedendo di attuare. La più grande di tutte forse è proprio quella di cambiare noi stessi. Talvolta, immobili di fronte ai grandi sconvolgimenti che avvengono sia nella nostra sfera individuale sia in quella sociale, mettiamo in moto sempre gli stessi schemi mentali, non riuscendo a vedere che proprio lì nella difficoltà, nel movimento, nello stravolgimento si cela proprio l’occasione per disegnare una nuova storia, un’evoluzione verso scenari sempre migliori. Ci vuole coraggio, elasticità, grande lungimiranza a cambiare e a vedere quello che non si è mai visto prima. E’ un pò questa la figura del Designer che Sonia Massari mi ha trasmesso con entusiasmo, passione, tenacia. Nata ad Argenta in Provincia di Ferrara, residente ora a Roma, è ricercatrice senior, consulente per aziende e fondazioni, professoressa di Design, appunto, e sostenibilità attraverso il cibo. Venti anni di esperienza, docente anche negli USA, consulente e designer nei settori dell’istruzione, del Food Design sostenibile e dell’innovazione nel settore agroalimentare, ci racconta dell’importanza della formazione, della figura del Designer, soprattutto per il momento storico che stiamo vivendo, e di quanto uno sviluppo sostenibile sia imprescindibile da un approccio olistico, che abbracci ogni aspetto della vita e ogni aspetto della società. Perché se è vero che nulla esiste indipendentemente da tutto il resto, non possiamo che aprire gli occhi, guardare la realtà per quella che davvero è, rimboccarci le maniche e agire partendo ognuno e ognuna dal proprio senso di responsabilità.
Hai veramente un curriculum strabiliante. Anni e anni di studio ed esperienza nel Design applicato al Food nell’ambito della sostenibilità. Quali sono i contenuti delle materie che insegni?
Nella scuola di Design insegno agli studenti a capire i cambiamenti che la società sta affrontando in questo momento e quali sono le opportunità e i comportamenti emergenti per strutturare nuove culture. Con il mio focus sia sul cibo che sulla sostenibilità i ragazzi possono imparare a cogliere quegli elementi già insiti nelle nostre abitudini e rituali che possono essere ripresi e utilizzati per esaltare in qualche maniera la progettazione di nuovi prodotti e servizi o sistemi. In questo caso è più un lavoro di studio e ricerca per progettare qualcosa di nuovo e innovativo. L’ambito Food, essendo un tema trasversale allo sviluppo sostenibile, è un buon punto di partenza per capire quanto le nostre scelte alimentari che riguardano tutta la filiera, siano influenti ogni giorno sul Pianeta. Partendo dal cibo poi ci si può allargare fino ad arrivare a trattare tutti gli obiettivi dell’Agenda 2030, quindi anche il ruolo dell’educazione, della donna, il concetto di qualità della vita, il benessere, la famiglia e i rapporti al suo interno. A Economia invece la materia che insegno è inserita nel corso di laurea Innovation and Sustainability e lì il mio ruolo è aiutare i ragazzi, che sono già laureati in economia e stanno prendendo la specialistica, a ragionare in termini di sostenibilità vedendo le cose da una prospettiva diversa quindi non prettamente secondo i canoni economici standard. Nel mio corso cerchiamo di capire quali sono i valori umani e i valori che stanno dietro alle nuove imprenditorialità, alle start up e all’innovazione in generale. Da questo cerchiamo di capire cosa sia uno sviluppo sostenibile osservandolo da un punto di vista sistemico e transdisciplinare. In questo corso emerge forte la rigidità dei ragazzi. Non sono dei designer quindi hanno più difficoltà a vedere quanto possano essere impattanti, a livello sociale, ambientale e non solo, le scelte economiche. In modo trasversale infatti possono creare delle conseguenze negative a lungo termine molto forti. Proprio per questo occorre che le nuove culture progettate siano sempre più sostenibili. Questa è la metodologia che applico ai corsi e ai moduli che svolgo per altre università. Attualmente sto insegnando anche alla Scuola Politecnica di Milano dove c’è un Master in Food design. Lì parliamo di nuove tecnologie e del tipo di competenze che si devono avere per progettare prodotti e servizi innovativi nell’ambito dell’agro alimentare. Poi da qualche anno insegno anche in altre Università europee: alla Rome Business School, alla scuola di Intrecci Formazione, al Master in Food Design di Lisbona, al Master of Gastronomy: Creativity, Ecology and Education di Scienze Gastronomiche sempre con l’impostazione di moduli improntati ad aprire un po’ la mente per vedere le cose non linearmente ma in modo sistemico. In base a quello che stanno già imparando aiuto i ragazzi ad acquisire un approccio critico e allo stesso tempo creativo rispetto al cibo, a capire il presente per progettare un futuro diverso.
Come reagiscono a questi input?
Diversamente da come sono abituati. La scuola è la nostra palestra mentale e ci sono tante intelligenze ma con il tempo ci accorgiamo che abbiamo fatto ginnastica solo per allenare una parte di esse. Apprendiamo tanti concetti e tanti punti fermi e invece è importante vedere le cose anche in un modo diverso. Più vieni da un contesto di hard skill scientifico, economico, più hai difficoltà a lasciarti andare a processi creativi e acquisire nuove prospettive. D’altra parte lo studente in design spesso ha meno esperienza nell’uso del critical e integrative thinking. Tutti gli studenti hanno comunque in generale la difficoltà comune a reagire di fronte a “ metodi di insegnamento universitario alternativi”, li reputano spesso caotici. Si sentono confusi, non capiscono più niente, poi quando la matassa si srotola l’effetto è sorprendente. Durante e a fine corso chiedo sempre il loro punto di vista, la loro opinione. E’ importante formare persone che sappiano pensare in maniera più critica, più creativa, con un approccio coinvolgente. Alcuni mi scrivono dopo due o tre anni o anche di più e mi raccontano quanto sia utile per loro applicare le tecniche apprese durante il mio corso. E’ la cosa che in assoluto mi fa più piacere.
Perché hai deciso di dedicarti all’insegnamento in questo settore?
Inizialmente non pensavo fosse la mia strada. Ho un background alquanto schizofrenico. Mi sono laureata in Scienze della Comunicazione convinta che avrei lavorato nel marketing in quanto appassionata di pubblicità e di nuovi trend. Se dovessi definirmi in negativo direi che sono sempre stata “una pioniera insoddisfatta”. Cerco sempre il nuovo, cavalco la novità prima che arrivi poi però devo ricominciare andandone a cercare subito un’altra. Il lato positivo è che preferisco definirmi una “visionaria insaziabile”. Ho bisogno di vedere sempre qualcosa di nuovo. L’ultimo anno di Università decisi di fare un Master in video editing e web reporting. All’epoca eravamo quattro donne in tutta Italia a fare questo mestiere. Poi la mia ricerca di tesi si è concentrata su quanto la narrativa digitale potesse diventare una narrativa di formazione. Dopo la laurea iniziai subito a lavorare nella pubblicità e in quel periodo scrissi un progetto sulla narrazione digitale per formare i carcerati. Nel 2003 non si parlava ancora di DAD (didattica a distanza, ndr) come oggi, l’e-learning era all’inizio e il mio progetto era molto “out of the box”. Questo progetto mi permise di vincere una borsa di studio negli Stati Uniti. Quando arrivai lì mi iscrissi a qualsiasi corso possibile e iniziai conoscere bene il dipartimento di Design. Frequentando, andando alle conferenze, parlando con i docenti mi diedero l’occasione di insegnare in un corso di Design, il mio primo come docente. Quando tornai in Italia, dopo aver lavorato nella progettazione EU e Cooperazione internazionale, capii che non era il luogo giusto per me e che volevo tornare alla formazione in aula. Così chiesi a qualsiasi scuola di Roma, dove mi ero trasferita, di poter insegnare. Avevo la necessità di interagire con gli studenti, di seguire il processo di formazione. Non vedo l’insegnamento come un qualcosa che io do ma come uno scambio da entrambe le parti dove c’è una co-costruzione di conoscenza. La fine della storia è che incontrai una scuola internazionale che non mi affidò un unico corso ma un intero programma per conto di una Università americana. Dopo questa esperienza, venni assunta per progettare dall’inizio alla fine, come fa un Designer, il primo Istituto in Italia per accogliere i futuri Food Studies. Un luogo in cui la formazione e il cibo sono insegnati a livello Universitario ma in modo diverso, più esperienziale, interattivo, e connesso al mondo reale della filiera agro-alimentare. Sono stata direttrice dell’istituto dal 2008 al 2020. Nel mentre ho conseguito un Dottorato in Ingegneria durante il quale ho studiato le dinamiche cognitive della Food Experience Design e l’impatto delle tecnologie digitali sugli atti alimentari. Dal 2015 in poi ho iniziato a insegnare in varie università italiane.
Cosa rappresenta per te il design?
Se riesci a comprenderlo andando oltre alla tecnica, è uno strumento fortissimo. Ti permette di guardare oltre la siepe e capire come vanno le cose. Qui in Italia è cambiato tutto dopo il movimento educativo e mediatico legato al cibo portato nel 2015 da Expo. Prima di allora nessuno mi aveva chiesto di tenere un corso sul Food Design. Il risvolto negativo è stato il caos iniziale: il Food Designer non è chi impiatta, quello è lo chef, o il Food artist o Stylist. Il design è un metodo di ricerca, tu lo puoi applicare a qualsiasi ambito ma c’è ancora tanta disinformazione. Per comprendere meglio questa disciplina occorre partire dalla parola design, che è il punto chiave. Design in inglese significa progettare. Quella deve essere la base di riflessione. Oggi non puoi progettare senza pensare in maniera transdisciplinare e a lungo termine. Bisogna osservare le cose in maniera sistemica per capire che mondo c’è oggi e cosa vorresti tra 10-20 anni. Quindi riflettere su quanto impatterà sul Pianeta quello che stai facendo ora.
Che ruolo ha il Food all’interno dell’Agenda 2030?
A 360° come ci racconta la letteratura scientifica in quanto è trasversale rispetto a tutti gli obiettivi. Pensiamo all’ambiente. La plastica dunque il packaging tante volte va nei mari e sulle coste. Se inquini le coste significa che i pesci non si avvicineranno e quindi i pescatori non potranno pescare il cibo. Oppure i pesci si avvicineranno e mangeranno la plastica e a loro volta verranno mangiati da pesci grandi che mangeremo anche noi. Gli obiettivi sono tutti interrelati. Pensiamo anche al discorso della scuola dove viene dato un pasto ed è l’unico sostenibile per la famiglia perché è un servizio offerto. Il cibo diventa il mezzo con cui attirare le ragazze e i ragazzi a scuola, e quindi fornire a loro una formazione e forse anche un lavoro futuro. Se andiamo a vedere i dati di Save the Children ci sono anche paesi sviluppati come gli Stati Uniti in cui la scuola diviene l’unico luogo in cui avere un pasto decente. Quindi la scuola da una parte diviene lo strumento per accedere a un cibo di qualità dall’altra parte ci sono paesi in cui attraverso il cibo, proprio perché offri un cibo di qualità, in qualche modo riesci a educare. Scuola, cultura ed educazione si aiutano a vicenda e vanno insieme. Durante il Covid i dati sono sconcertanti. Nel momento in cui chiudi una scuola non solo chiudi l’accesso a un’educazione ma chiudi per molti anche l’accesso al cibo. Questi sono solo alcuni esempi. Alcuni temi sembrano lontani ma non lo sono e hanno tutti un riferimento al cibo molto forte. Pensiamo anche a tutto quello che abbiamo in comune come paesi del Mediterraneo. I mari, ma anche le risorse, gli effetti del cambiamento climatico… in che maniera dunque il cibo impatta sui movimenti della popolazioni? Pensiamo alla deforestazione e all’impatto sulla vita di molte comunità. Il collegamento cibo e deforestazione non è scontato, anzi. Non dico che la causa sia solo questa ma è un elemento importante, di riflessione. Quando pensiamo al sistema cibo pensiamo solo al lato finale della filiera ma in realtà nel momento in cui tu produci utilizzi delle risorse. Questo metterà in moto la distribuzione, la commercializzazione, il consumo, e il post-consumo … è la parte della filiera su cui oggi si lavora tanto lottando contro lo spreco e incentivando il recupero dello spreco per arrivare a un bilanciamento che permetta di aumentare la qualità della vita di sempre più persone. Penso che la sostenibilità universale sia una utopia ma occorre comunque impegnarsi per preservare il Pianeta. Quindi parlare di sostenibilità intesa come buona qualità della vita ponendosi come obiettivo cardine quello di gestire le risorse in una maniera equa. Le scelte che facciamo nella nostra alimentazione hanno un grande potere per cambiare le sorti dell’umanità.

Quanta attenzione c’è da parte delle aziende su questo tema?
Dalla grande alla piccola vedo che c’è interesse a capire cosa sia la sostenibilità e soprattutto a dargli concretezza. La pandemia nel lasso di tempo del lockdown ci ha dato per la prima volta la prova tangibile di cosa sia un qualcosa di sostenibile inteso come sostenere qualcosa di valore. In quel momento lì hai avuto concretezza perché sapevi cosa era importante. Poteva essere il tempo, il mangiare, la famiglia. Essendo la sostenibilità un valore è difficile da acquisire, non la puoi semplicemente dare per scontata. Creare nella propria azienda una cultura in questo ambito è una delle grandi sfide che tante aziende avevano iniziato a intraprendere anche prima della pandemia. Anche se ancora non hanno ben capito quale sia il ruolo del design in tutto questo. Se devono pensare all’innovazione purtroppo spesso non si rivolgono a questa figura professionale. Semmai vanno dal social media manager o dal graphic designer senza che però poi a volte riescano effettivamente a risolvere il problema. Secondo me c’è molta ignoranza su quale sia la sua potenzialità e il suo ruolo. Penso sia necessaria una maggiore comprensione affinché questa figura possa aiutare le aziende ad uscire da un periodo di emergenza. Il Designer può divenire davvero una figura cardine in questo momento di transizione.
Qual è un paese a livello internazionale che sta riuscendo a cogliere realmente il valore di questa figura professionale?
Non saprei individuare un paese più pronto di un altro. Ma posso raccontare cosa stava avvenendo in Cina prima della pandemia, dove dovevano aprire una grande scuola di Food Design a giugno del 2021. Durante la presentazione del progetto ci hanno detto: “Noi abbiamo capito che finora non stavamo vivendo bene. Non stavamo usando bene le risorse del Pianeta. Se continuiamo così non potremo vivere più di tanto. Abbiamo capito che dobbiamo cambiare la qualità della nostra vita. Secondo noi il Food Design è un ottimo strumento per poterlo fare. Vogliamo partire dal nostro cibo”. Questa è proprio la chiave. Hanno colto quale fosse il primo passo da fare per attuare un cambiamento epocale nel lifestyle, nella tipologia delle produzioni, delle risorse, dell’import export. L’ho trovato molto in linea con quello che dovrebbe essere il ruolo del Food Design oggi.
Secondo te qual è lo scoglio più grande nel realizzare effettivamente uno sviluppo sostenibile nell’ambito del Food? E cosa potremmo fare per velocizzare questo processo?
Sicuramente occorre partire dalla formazione. Se riesci ad agire su di essa allora puoi portare un cambiamento. Quando hai persone già formate non puoi modificare totalmente il loro modo di ragionare, di crearsi un pensiero. Probabilmente va fatto un lavoro dal principio, dal momento in cui i ragazzi entrano nelle scuole. Torniamo alla frase che ho detto all’inizio. Se hai fatto palestra su una sola intelligenza invece che su dieci allora è il caso di portare in palestra anche tutto il resto. Dirò una cosa forse impopolare. Tutti hanno puntato il dito sulla DAD, e si è investito molto sull’hardware durante la pandemia quindi sulle cose tangibili come i banchi, gli spazi, i devices, Internet… Senza tenere conto di quello che c’era dietro ovvero del software delle cose, dunque le persone. Abbiamo avuto mesi e mesi per formare le persone a fare la DAD o comunque per provare a capirla. Lo so che è difficile, anche io non sono la persona più felice del mondo a dover interagire con le studentesse e gli studenti da lontano però l’emergenza ci ha richiesto questo impegno. Ma dare la colpa di tutti i mali della scuola a uno strumento mi sembra riduttivo. Se si è pensato tanto a come riformulare spazi e banchi magari avrei messo lo stesso sforzo nel chiedermi: come creo delle nuove realtà didattiche, delle soluzioni innovative nella scuola, e soprattutto che tipo di formazione posso dare al corpo docente affinché ciò avvenga? Oggi ci lamentiamo dando la colpa agli strumenti quando in realtà il problema è stato quello di non aver mai preso in considerazione il lato umano. Non abbiamo guardato il problema o l’opportunità al cambiamento, al miglioramento della didattica. Sarebbe potuto essere un momento di arricchimento di crescita, di accelerazione ma non lo è stato. Mi chiedi quello che potrebbe aiutare a incentivare lo sviluppo sostenibile in questo e altri ambiti e mi viene da pensare a un altro grande ostacolo: la gente forse a volte non vuole accelerare o cambiare punto di vista.
Torna fuori il tuo ragionamento rispetto a quanto sia poco elastica la nostra mente.
La creatività sta dentro a tutti. Il problema è che ti viene insegnato ad atrofizzarla a favore di altre competenze e conoscenze. E’ chiaro che se non l’alleni è faticoso farla emergere. Agli studenti in classe faccio fare un esercizio di prototipazione rapida usando la plastilina e i colori. All’inizio mi guardano in silenzio. Dopo 5 o 10 minuti ci giocano e arriva il caos. Mi dicono “guardi non so se ho fatto bene o male” ma in quel momento con la plastilina in mano non capiscono più niente. In realtà è solo un mezzo per mostrargli come in due ore di workshop, che noi facciamo seguendo anche delle tecniche rudimentali, loro possono arrivare ad avere un’idea collaborativa. Alzarsi alla mattina e avere un’idea non è un metodo scientifico. Però ci sono dei metodi che ti aiutano a far emergere soluzioni.
I giovani sono scesi in piazza, hanno risvegliato tante coscienze soprattutto istituzionali su questi temi. Nel concreto quanto è diffuso secondo la tua esperienza professionale e personale il senso di responsabilità individuale nel sentire che ognuno può essere autore di un cambiamento positivo?
Ne sanno tanto di ambiente grazie al movimento sollevato da Greta e fortemente orientato al cambiamento climatico. Ne sanno pochissimo invece di quale può essere il loro contributo soprattutto nella parte cibo. Ci dovrebbe essere un’educazione alimentare improntata non solo rivolta alla salute del corpo ma anche a quella del Pianeta. Anche questo è un gap di educazione. Se fosse obbligatoria questo tipo di formazione, se i temi venissero forniti fin da quando siamo piccoli, avremmo poi dei cittadini più consapevoli ma anche dei professionisti che lavorano in maniera diversa. Benissimo avere dei movimenti come quello di Greta che a livello informativo sono sempre buoni ma poi bisognerebbe dare più consistenza ai contenuti. Secondo la mia esperienza e le statistiche a cui faccio riferimento i giovani non si sentono questa responsabilità. Anche loro pensano che sia un problema della prossima generazione. Un esercizio che faccio in classe per sopperire a questo è chiedere ai ragazzi di scrivere una lettera immaginando cosa scriverebbero i loro nipoti nel 2070 a loro in quanto nonni. Non sono lettere catastrofiche ma fra 50 anni prevedono quello che c’è adesso ovvero lo stesso caos. E’ come se non intravedessero una soluzione. Se non sei in grado di vedere il futuro che tipo di responsabilizzazione stai pensando di mettere in atto? E’ questo il feedback che ricevo. E’ da un anno che lo sto facendo quindi non ho dati quantitativi ma a livello qualitativo vedo una progettazione solo a breve termine. E’ una skill però che si può imparare. Come hai imparato a fare matematica, a leggere, a cantare così puoi imparare a progettare e quindi a ragionare in maniera sistemica e a lungo termine.
Passiamo al Goal 5 nell’ambito della tua carriera. Il fatto di essere donna è mai stata una discriminante in tutto quello che finora hai realizzato?
Se sei donna è diverso ovunque ti poni. Sono sempre stata la più giovane e la più piccola in tutte le cose che ho fatto. Essere giovane e donna non è semplice. Per un periodo ho anche avuto i capelli blu e quindi questa cosa ha aumentato l’essere trattata senza rispetto. Nel mio settore non vedo discriminazioni diverse da quelle presenti in ogni altro settore. Penso però che un punto a favore del settore educativo sia la capacità di fare rete. Ultimamente sono sempre più parte di reti di donne: le vedo attive, forti e penso che sia molto positivo. Sul lato della docenza e della ricerca la discriminazione è tanto evidente. Ad ogni modo l’importante è portare le ragazze e i ragazzi a ragionare in maniera diversa. Io il gender lo metto in tutti i miei corsi come uno dei punti su cui lavorare. E dico sempre alle ragazze: “Spero che non vogliate solo essere parte di un gruppo, ma vogliate anche essere voi a creare qualcosa di importante”. Credo che come educatori, abbiamo un ruolo importante, dobbiamo aiutare i nostri ragazzi a diventare agenti del cambiamento.
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