Corpi femminili tatuati che raccontano attraverso i simboli la propria storia. Dirompente e rigogliosa natura che si scatena dal profondo dell’interiorità, una natura che narra la cura, la rinascita, la lotta interiore costante e continua tra gli abissi dell’oscurità e il desiderio di creare. Artista e illustratrice, dopo essersi laureata all’Istituto Europeo di Design, Margherita Paoletti ha frequentato corsi alla Central Saint Martins e BTK di Berlino per poi spiccare il volo ed esporre le sue opere in tutto il mondo: da San Francisco a Bruxelles, da Tallin al Giappone e naturalmente l’Italia. Partendo dal vissuto personale e dall’osservazione della natura, nel suo studio di Rovereto prendono vita le sue opere tra cui emergono anche corpi femminili in cui il tatuaggio diventa simbologia e narrazione di emozioni. L’arte di Margherita è una poesia di straordinaria bellezza che trasmette, in chi la osserva e ne conosce la storia, la consapevolezza di quanto sia davvero infinito e maestoso il potenziale che possiamo manifestare.
Dove nasce la tua passione per l’arte?
Mio padre dipingeva e anche mia madre amava l’arte. Fin da piccola quando mi portavano alle mostre ho sempre percepito un forte legame con i quadri e con i colori. I miei genitori mi hanno incoraggiata a coltivare questa mia passione che da semplice passatempo è divenuta poi la mia professione.
Nel 2016 hai realizzato due residenze artistiche. Una in Estonia e una in Giappone. Cosa hai appreso da queste esperienze?
Subito dopo la laurea sono partita per l’Estonia dove ho collaborato con il Museo della Stampa, un museo privato creato da una coppia di ragazzi con il coinvolgimento anche di altri giovani artisti, un vero e proprio laboratorio di innovazione. All’inizio erano tutti volontari poi sono riusciti a raccogliere fondi tramite varie iniziative tra cui la creazione di sketch book che realizzavano recuperando i libri stampati durante il periodo dell’occupazione da parte dell’Unione Sovietica e rivendendoli su Internet o nei mercatini. Ho avuto uno scambio continuo di idee con tanti giovani molto attivi in vari ambiti culturali. Insieme a loro ho approfondito le tecniche di incisione ed essendo molto forti le tradizioni folkloristiche estoni narrate attraverso le canzoni, ho creato delle opere illustrate su questo tema che sono poi state esposte in due mostre a Tatu e a Tallin. Uno potrebbe pensare all’Estonia come a un paese rurale e invece hanno un senso della modernità davvero spiccato. C’ è molta iniziativa da parte dei giovani e lo stato li sostiene. Per la residenza a Kofu, in Giappone, sono partita lo stesso anno. La signora che mi ospitava mi ha accompagnata a conoscere gli artisti locali, il lavoro fatto dal Comune e a scoprire quant’è forte la collaborazione tra i cittadini e le istituzioni. Ci sono continui confronti tra loro su quali azioni fare per il futuro della città. E’ stato davvero molto stimolante. Amano molto l’arte europea e questo si riflette anche nelle opere custodite nel loro Museo di arte. Questa esperienza così diretta con la loro cultura mi ha ispirata a basare la mia ricerca artistica anche in questo caso sulle loro tradizioni. Ho così creato una serie di illustrazioni ironiche stampate sui furoshiki tramite dei pattern in gomma. Per farti alcuni esempi ho disegnato una bowl di rame dentro a un sommergibile oppure una Monnalisa con il ramen e le uova al posto dei capelli. Il contatto con loro mi ha lasciato tanta umanità e un forte senso di innovazione e di libertà. Il supporto tra artisti e cittadini c’è ed è forte.
Hai fatto altre residenze in seguito a quelle?
Sì nel 2019 prima della pandemia sono stata selezionata con altri bravissimi artisti per una residenza di alcuni giorni organizzata all’interno del Lago Film Festival vicino a Treviso dedicato al cinema indipendente e ai cortometraggi. Il tema era “18 occhi” perché erano il numero degli occhi di tutti noi illustratori. L’elaborato finale consisteva nello scegliere delle eroine di film che ci piacevano e ambientarle nella cittadina del Lago dove si svolgeva il Festival. Io ho sempre ripreso l’idea del tattoo sulla pelle e ho ritratto le mie eroine in scenari che rappresentavano quello che stavo vivendo come il pedalò sull’acqua, lo schermo del cinema dentro il lago, le ranocchie che gracchiano, il circo di mezzanotte. Quest’ultimo è stato una sorpresa per tutti. Un giorno è arrivato trainato da cavalli e gli hanno dato ospitalità a patto che gli spettacoli venissero fatti dopo mezzanotte. Magia pura. E’ stato come vivere un film romantico francese. Bellissimo.
La tua poetica è basata sul corpo come contenitore organico di sogni, desideri, memorie, esperienze. Che percorso hai fatto per arrivare a questa ricerca?
Mi è venuta in mente piano piano. All’inizio quando ho frequentato la specialistica all’Università ho creato un progetto che parlava del corpo tatuato. I tatuaggi erano la storia che narravano le emozioni e le vicende del corpo in cui erano. Ho sviluppato questo progetto in incisione ed è poi sempre rimasto nella mia testa: il tatuaggio come fonte di narrazione. L’importanza del corpo è dunque centrale nella mia visione artistica. Le vicende personali che ho vissuto legate alla mia salute e a quella di altri mi hanno portato a vederlo come luogo da cui nascono tutte le cose: le emozioni, il benessere… Siamo noi che diamo un senso a quello che abbiamo intorno a noi. Non è stata un’idea geniale ma naturale. E’ il tempo che decide quello che l’artista fa. Ora sto vivendo un momento particolare. Nel 2020 a causa dell’immobilismo a cui ci ha costretti la pandemia ho creato incessantemente. Sto cercando di capire che cosa significhi fare arte ed essere un artista in un contesto che ha perso completamente il senso che aveva quarant’anni fa. Sto vivendo un momento di transizione e ho sentito che fosse arrivato il momento di fare qualcosa di completamente diverso da quanto fatto finora. Sono sempre io ma è una rappresentazione che sento ancora più mia. Ho introdotto più ironia e più cinismo. E’ ancora tutto in lavorazione.
Le tue opere esprimono un trionfo di natura, di botanica. Cosa si muove in te per trasmettere questo?
Parte tutto da un corpo malato che continua ad esserlo a livello cronico e anziché pensare in negativo ha deciso di raccontare tramite l’arte come sia riuscito a rinascere attraverso la cura. E’ così che ho iniziato a creare questo tipo di arte. Il malessere è ritornato e adesso c’è stata una nuova guarigione, nuove cure. E’ un bilanciarsi tra il baratro e la spinta creativa, due aspetti che ti portano sempre a fondo, a scoprire nuove cose, a indagare anche i sentimenti più oscuri. Rispetto al passato ora c’è più oscurità nei quadri sia come contenuti che come colori sempre in contrasto con le forme naturali, gli animali, i rettili.
La forza che ti permette di sublimare la sofferenza e trasformarla in arte è un grande dono.
Credo che sin da piccola nel bene o nel male ho sempre avuto un occhio di riguardo per le forme di colore. Immobili su un foglio. Mi sono sempre chiesta: com’è possibile che ti diano qualcosa? A volte te lo danno anche più di mille libri, più di mille parole. Prima per fare arte avevo urgenza di dare forma a nuove immagini. Invece ho compreso che fare arte è stratificazione di esperienza. Cose a cui pensi due anni prima le tiri fuori due anni dopo e solo quando finisci l’opera ti rendi conto che avevi già pensato a quello che stai realizzando.
E’ straordinario quello che riesci a creare anche in questi momenti così difficili.
E’ una salvezza. Non potrei fare altro. Mi sono anche chiesta se fosse un’altra la mia strada ma questo è ciò che mi salva, è ciò che sono. Alla fine cos’è la vita? Quando perdi la salute cambia tutto. Diventi quasi Buddista inconsapevolmente. Assumi i valori della lentezza, della meditazione e inevitabilmente vai più in profondità. Sono stati mesi molto intensi. C’è stato di nuovo come un risciacquo. Il corpo va a terra e poi si rialza sempre più forte, è come un nuovo inizio. Sarà il carattere ma devo sempre trovare un modo di andare avanti, mai buttarsi a terra e lamentarsi. Soffri e vai avanti, non c’è altro.
Nel Buddismo c’è un’analogia bellissima. Il fiore di loto mette le radici nel fango, nella melma e grazie ad essa può sbocciare. Tutti gli altri fiori hanno bisogno del giardino perfetto e invece il fiore di loto è proprio grazie alla melma che manifesta tutto il suo splendore. Quando si affronta una sofferenza puoi sperimentare che alla fine il karma può essere trasformato in missione. Le tue opere sono una concretizzazione di questo.
Ho studiato il Buddismo e sono stata in India quando ero adolescente per un trekking. Durante la camminata sono stata male e ho dovuto affrontare il cammino in un altro modo, molto più filosofico credo. Le cose che faccio e penso sono legate alla filosofia Buddista in qualche modo, forse grazie anche a questa esperienza.
Di pari passo con la tua crescita interiore si è evoluta anche la tua arte.
Chi ha sensibilità lo coglie questo seme. C’è un’esperienza dietro quello che faccio ed è interessante. Quest’anno si vedrà. A dicembre è prevista una mostra personale con un all inn di tutte le opere che ho. E’ un punto di svolta per capire qualcosa di tutto il mio percorso. Sarà interessante vedere e capire. Partecipo a progetti più piccoli ora e più attenti ai territori. E’ tutto più intimo adesso.
Questo avvicinarsi ai territori è in forte connessione con il tema dello sviluppo sostenibile. In quanto artista in che modo stai cercando di contribuire?
E’ molto interessante e mi rendo conto che nelle mie scelte quotidiane non esiste una scelta in cui io non mi senta in colpa nei confronti dell’ambiente. Al contempo cerco nel mio piccolo di impattare il meno possibile. Mi sono comprata la bici elettrica e sto cercando di andare a lavoro con quella. Quando sono in macchina non accelero. Lavoro in quest’ottica. Uso ancora prodotti chimici ma riuso sempre lo stesso contenitore e conservo la plastica quando faccio laboratorio al Museo con i bambini. Cerco sempre di trovare un secondo uso alle cose. Spero di riuscire a trovare colori naturali alternativi. Riconosco che vorrei fare di più su questo tema.
Lavori anche con i bambini?
Per un periodo sono stata insegnante di arte in inglese per i ragazzi delle medie. E poi svolgo laboratori di arte con il Museo del Garda aperti anche ai bambini delle elementari. Per loro è importante che la figura che gli insegna queste cose sia un artista. Quando li ho conosciuti hanno esclamato: “wow un’artista vera!”. Loro sono tanto reattivi all’arte. Adesso come adesso a fine laboratorio c’è chi tenta di abbracciarmi. Qualcuno di loro lo fa quasi di soppiatto come se non ce la facessero più a tenersi dentro questo desiderio di esprimere e ricevere affetto. Sono quelli che hanno sofferto e soffrono di più la distanza fisica.
Come giovane donna artista negli ultimi anni hai acquisito sempre più credibilità. Come possono le donne artiste portare un cambiamento nel mondo dell’arte e della società rispetto ai temi dell’uguaglianza di genere?
Se all’inizio, quando ero un’artista emergente, sentivo molto forti le questioni di gender gap ora percepisco meno la differenza tra uomo e donna nell’arte. Non sento una necessità femminista nei confronti dei miei colleghi uomini quanto più una necessità nei confronti della società contemporanea. Poi è vero che se parliamo di artisti di un certo livello gli artisti uomini continuano a essere pagati di più che le artiste donne ma vedo che c’è sempre più un’attenzione maggiore verso le artiste donne. Ne sto conoscendo sempre di più e sto scoprendo quanto sia stato raccontato marginalmente il loro ruolo nella storia dell’arte.
Hai un maestro a cui ti ispiri?
Henri Rousseau, Magritte, Frida Kalo, Maruja Mallo, Raisa Alava. Sono sempre alla ricerca di artisti contemporanei soprattutto di illustratori moderni e contemporanei come la tatto artist Sophia Baughan.
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