L’eleganza e la forza racchiusi in un gesto antico: il ricamo. Simbolo della bellezza, del desiderio di contraddistinguere, di arricchire e raccontare qualcosa attraverso le tradizioni, questa tecnica divenuta arte, ha sempre affascinato per le infinite possibilità di espressione in essa racchiuse e per i tempi di lavoro che costringono a momenti di riflessione, di quiete della mente e del cuore. Ho avuto il piacere di conoscere e chiacchierare con l’artista Anaïs Beaulieu su come questo stile sia parte imprescindibile della sua arte e della sua stessa identità.
Come hai scoperto la tua passione per l’arte?
Mi è sempre piaciuto disegnare, fin da bambina. Tutto nacque dall’amore per i libri: passavo tanto tempo in biblioteca a sfogliare quelli sulle conchiglie che tutt’ora colleziono. A casa ne ho tantissime! Al College decisi di studiare Storia dell’Arte e in seguito feci un Master in Belle Arti. In quel periodo mi esercitavo nel disegno, nel collage e nella fotografia. Il taccuino era diventato il mio studio. Dopo l’università lavorai come rilegatrice in un’azienda e mi accorsi di quanto i libri fossero importanti per la mia vita. Decisi così di specializzarmi in questo settore e di fare un Master Professionale in Edizioni Artistiche e Libro degli Artisti. In quel periodo rimasi affascinata dai libri per bambini. Feci uno stage negli archivi di Father Castor e anche per Three Ourses con cui ho lavorato per 7 anni. Fui assunta per integrare il lavoro di Bruno Munari: rimasi affascinata dalla sua visione della pedagogia dell’arte nella vita quotidiana. Ho lavorato anche con artisti come Katsumi Komagata, Marion Bataille, Louise-Marie Cumont, ma anche per dare forma a una visione di educazione artistica e artigianale. In seguito decisi di partire per il Madagascar e poi in Burkina Faso. In quei luoghi capii alcune cose: l’essere umano esiste anche grazie a quello che può fare attraverso le sue mani. Così ho chiesto a me stessa: “Cosa posso fare con le mie mani?”. A otto anni mia nonna mi insegnò a ricamare per fare un regalo all’altra mia nonna che viveva a 500 km di distanza. L’idea di viaggiare è ancora presente nel mio lavoro. In effetti, viaggiare mi permette di osservare i contrasti tra i paesi, ad esempio le differenze tra Burkina Faso e Francia. Ecco perché è così importante per me andare nei luoghi ed è per questo che ho iniziato a ricamare. Mi piace molto farlo mentre viaggio.
Cos’è per te il ricamo?
È un modo per attraversare il tempo ma anche per stabilire un collegamento universale. Il ricamo è ovunque nel mondo. Il mio lavoro trova le sue basi nella mitologia, in quei racconti epici in cui esiste una connessione tra linguaggio e ricamo. Per esempio il filo di Arianna, Penelope o il Dio Nommo che descrive Ogotomelli in Dieu de eau di Marcel Griaule. Ricamo per esprimere la storia del mondo in cui vivo attraverso una tecnica molto antica. Usarlo nel presente lo rende anche contemporaneo. Mi fa sentire un pò come Alice nel Paese delle Meraviglie. Cerco sempre di guardare cosa c’è dietro. Mia nonna mi ha detto che per riconoscere un buon ricamo devi guardare la parte posteriore. Ogni ricamo ha una sua storia.
Com’è stata la tua esperienza in Burkina Faso?
Sono tornata da lì qualche mese fa. Era la decima volta che andavo ma questa volta è stata un’esperienza molto speciale. “Facteur Céleste”, un’etichetta che crea borse e portafogli nel riciclaggio delle busta di plastica, mi ha chiesto di creare una nuova collezione di portafogli per loro ispirata ad alcuni modelli di ceramiche classiche e di realizzarla in Burkina Faso dove anche loro avevano già lavorato. Ho accettato a condizione che potessi lavorare con le donne del villaggio in cui ero solita andare. Così è stato. Ho insegnato a 6 donne a ricamare. Solo una lo sapeva già fare, per le altre non è stato facile ma sono state coraggiose e per ognuna è stata grande esperienza di scambio. La prima volta che andai in Burkina Faso rimasi infatti colpita dal calore delle persone. Questo mi spinse a tornarci più volte. Le mie esperienze lì mi hanno permesso di riflettere e realizzare cose sui contrasti della vita moderna. In Burkina Faso mi sono ispirata nel realizzare la maggior parte dei soggetti della serie À vos souhaits (Salute!). Ad esempio ho compreso quanto sia fortunata a vivere in un luogo in cui c’è l’elettricità. Quindi ho ricamato su stoffa una spina. Pochi giorni dopo ho realizzato che vivo in un mondo con delle scale elettriche. Così ho deciso di ricamare alcune scale elettriche. Anche la serie “Futiles”: ho ricamato piante, coralli, oggetti del mare su buste di plastica. La sensibilità del ricamo e la fragilità della pianta che invoca, si contrappone alla banalità inquinante del materiale su cui è ricamato, il sacchetto di plastica. Quando si trapana un sacchetto di plastica con un ago da ricamare, c’è sempre un pò di tensione perché il sacchetto di plastica può strapparsi in qualsiasi momento. Diventa vulnerabile e minacciato come le specie di piante che sono ricamate su di esso. Questa vulnerabilità intensifica la preziosità del ricamo e ciò che rappresenta.
Con i ricami sulla busta di plastica dai un valore, una nuova bellezza a qualcosa che altrimenti verrebbe gettato via. Quali sono le tue emozioni a riguardo?
È la questione del tempo ad affascinarmi. Un sacchetto di plastica vive più o meno 400 anni. Io riesco a ricamarci sopra in 2 o 3 mesi. Ci vuole solo un secondo per essere buttato. Quanto tempo impiega una specie a comparire? O a scomparire? Per me il ricamo è come un atto di resistenza. Nel mondo in cui stiamo vivendo, tutto sta andando veloce. Ricamare è prendere il mio tempo in contrasto con questo mondo in cui tutto va veloce. Ricamare significa ritornare a me stessa, è un atto di meditazione. Questo è il motivo per cui utilizzo questa tecnica. Una volta ho ricamato una nave mentre ero su una spiaggia in Madagascar. Accanto a me c’era un uomo che stava costruendo una barca a vela con chiodi e martello e bambini che stavano costruendo piccole barche galleggianti con sacchi di plastica e legno. Sapevo che i miei ricami mi avrebbero richiesto alcuni mesi di lavoro mentre lui avrebbe impiegato 15 anni a costruire la sua barca e per i bambini era un lavoro quasi istantaneo. Il tempo per quell’uomo, il tempo per il bambino e il tempo che io stavo dedicando al mio lavoro. Ognuno di noi ha il suo tempo. Il ricamo è un momento per me. L’atto del ricamo è trovare la bellezza dove non riesco a trovarla. Come gli edifici industriali. Cerco di renderli belli.
Ci sono altre serie che hai fatto che mostrano un forte contrasto?
Ad esempio, nella serie «Salute», ogni elemento testimonia l’ambivalenza del mondo in cui viviamo. La tradizione del ricamo è legata al modernismo dei soggetti rappresentati. Il design ricamato di una fabbrica paragona l’industriale al manuale. Una gru da cantiere ricamata su un fazzoletto con motivi floreali giustappone l’urbano con la natura ma anche la stampa e il ricamo. Un muro di pietra si bilancia tra la finezza del ricamo e la brutalità di ciò che rappresenta. Un fazzoletto è una stoffa che ha già una storia, un’intimità. Ogni ricamo ha un rovescio, un luogo e legge tutte le opposizioni che rivela. Nell’atto stesso del ricamo, c’è già un viaggio, un viaggio circolare tra il fronte visibile e il retro che è il fondamento del ricamo. È lì che tutto è stato giocato da quando i nodi lo hanno bloccato, ma non lo mostrano. L’ago penetra – che è un atto violento in sé – ma lascia andare e guardare ciò che sta accadendo dietro per ricreare un’altra realtà. Il supporto diventa una frontiera che deve essere trascesa per unificare l’opposto e il luogo, ciò che è nascosto e ciò che può essere visto. Cucire mi permette di abolire questo confine e di viaggiare tra le polarità, le loro ambivalenze e di interrogarmi su cosa li connette. Perché, come dice Flaubert, “non sono le perle a fare la collana, è il filo”.
Hai un maestro a cui ti ispiri?
Amo l’arte popolare, la pittura a mano, l’arte che non dovrebbe essere arte. Il mio maestro è la natura. Mi interessano anche i libri antichi, specialmente quelli di botanica. Inoltre sono stata influenzata da Bruno Munari. Aveva una forma piuttosto seria di leggerezza nel suo lavoro. Il suo approccio è generoso: offre una grande autonomia al lettore in modo che si appropri del lavoro e crei la sua esperienza. Sia i suoi laboratori che le sue opere fanno parte di una vera riflessione educativa. Come designer, ha pensato il libro come un oggetto di mediazione artistica. Anche il lavoro didattico della fotografa Tana Hoban mi ha influenzato molto. Come lei dice così bene “le idee arrivano lungo la strada”. Ciò che trovo interessante nel suo lavoro è il modo in cui i concetti didattici costruiscono il libro ed esprimono i contrasti.
Che progetti hai per il futuro?
Adesso sto lavorando a un libro dopo una residenza di artista che feci alla casa editrice indiana Tara Books. Sto già pensando inoltre a una nuova collezione per Facteur Céleste e ho anche una serie di proposte per mostre.
Che libro stai leggendo in questo momento?
Il cuore cucito di Carole Martinez.
Che consiglio daresti ai giovani che desiderano realizzare una carriera artistica?
Seguite i vostri sogni e il vostro cuore.
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