La pandemia ci ha costretti in varie e diverse forme a stare più nel presente, un atto che porta con sé una maggiore attenzione a ciò che ci circonda e che potrebbe ricondurre a una questione perno dell’esistenza: cosa accade al di là di quello che vedo? Quali sono le storie celate dietro agli oggetti, ai prodotti che mi circondano e che quindi ho scelto? Oggi, a un giorno dalla Pasqua, su Bloom as you are vogliamo parlare di consumo consapevole, di etichettature, di sostenibilità, di allevamenti e naturalmente di animali, del loro diritto di vivere un’esistenza felice. Siamo stati abituati, per la maggior parte, nella tenera età a vedere le uova arrivare dal banco frigo, il latte dallo scatolone per poi fortunatamente scoprire grazie ai libri scolastici, ai racconti e a qualche gita nelle fattorie didattiche, quale sia la vera realtà. Dietro a tutto ciò che mangiamo esiste un processo, esistono possibilità, esistono soprattutto vite e anche emozioni. Nella quotidianità la percezione di tutto questo è sempre tanto lontana. Comodi e un po’ impigriti beneficiamo del prodotto finale. Ma dinanzi al cambiamento climatico, all’inquinamento causato in prevalenza dagli allevamenti intensivi, al nostro stile di vita non più sostenibile per il Pianeta abbiamo dovuto fare un passo indietro, stare nel presente, appunto, e osservare con presa di responsabilità gli effetti delle nostre azioni. Ci siamo dovuti rendere conto che così non può più andare, che tutto è interdipendente e che la nostra felicità non è separata da quella degli altri, animali compresi. A questo proposito ho intervistato Viviana Vignola, Campaigns Manager di CIWF Italia (Compassion in World Farming) l’unica associazione italiana no profit che lavora esclusivamente per la protezione e il benessere degli animali allevati a scopo alimentare. La mission di CIWF è quella di mettere fine all’allevamento intensivo, maggior causa di crudeltà verso gli animali sul pianeta. Allo stesso tempo, CIWF promuove pratiche di allevamento rispettose del benessere degli animali, dell’ambiente e delle persone. Con Viviana abbiamo parlato di tutto questo e di tanto altro. L’unità genera forza. Tante voci che mirano a un obiettivo comune possono far scaturire un’onda di cambiamento davvero immensa e in grado di ridisegnare il corso della storia.

Sono tante le campagne che state promuovendo per il benessere degli animali tra cui una dedicata all’etichettatura. Come possiamo riconoscere l’origine vera di un prodotto? E quanto può influire questo gesto sulla filiera di produzione?
Può influire tantissimo ed è proprio per questo che dobbiamo mettere il consumatore nelle condizioni di conoscere l’origine di ciò che sta acquistando. Al momento le informazioni presenti sulle etichette di prodotti di derivazione animale, quindi carni, formaggi e yogurt, sono molto spesso vaghe, fuorvianti e possono quindi creare confusione o essere ingannevoli. Anche le pubblicità tendono a promuovere prodotti di origine animale mostrandoci verdi pascoli, ma ad oggi non c’è modo di sapere se le vacche ad esempio abbiano visto l’erba nel corso di tutta la loro vita. Quindi la verità è che ad oggi il consumatore non è davvero libero di scegliere se privilegiare un prodotto caseario da vacche allevate al pascolo invece che da vacche allevate sempre al coperto. Proprio per questa mancanza di totale trasparenza su quale sia davvero il metodo di allevamento noi di CIWF Italia abbiamo lanciato una petizione indirizzata ai Ministri della Salute e delle Politiche agricole in cui chiediamo di avviare un processo per la definizione di un’etichettatura nazionale univoca che specifichi il metodo di allevamento. Al momento questa indicazione c’è solo per le uova grazie ad una normativa europea CE 2295 del 2003 che permette di sapere se le uova che acquisto provengono da un allevamento biologico, a terra o in gabbia. Quello che mi piace ricordare quando parlo di questa campagna è che non ci siamo solo limitati a chiedere alla politica di intervenire sul sistema di etichettatura ma ci siamo rimboccati le maniche per avanzare, con un’altra organizzazione partner, Legambiente, una proposta che riguarda nello specifico i suini e le vacche da latte al fine di distinguere i diversi metodi di allevamento. Faccio un esempio: per le vacche da latte sarebbe importante avere etichette che riportino se una vacca è allevata al pascolo oppure a stabulazione libera o a stabulazione fissa perché ci sono vacche che purtroppo nella loro vita vengono tenute legate costantemente. Ritrovare il metodo di allevamento in etichetta significa conoscere il potenziale di benessere di quell’animale. E’ questa trasparenza che permette al consumatore di divenire davvero consapevole e mandare un messaggio chiaro all’industria. Ora che abbiamo un Ministero per la transizione ecologica pensiamo che sia importante comprendere che la transizione verso allevamenti non intensivi non può avvenire senza dare un sostegno agli allevatori virtuosi che già si prendono cura del benessere dell’animale e a quelli che vogliono impegnarsi per migliorare. Un’etichettatura chiara permetterebbe inoltre di valorizzare queste realtà. La strada è ancora molto lunga da percorrere ma noi siamo molto battaglieri. Per chi volesse più informazioni sul nostro sito c’è la voce etichettatura dove si possono leggere tutti i passaggi di questa campagna.

Quindi ad oggi essendoci solo gli allevamenti di galline da uova regolamentati significa che ad esempio il latte o la ricotta biologica possono non essere tali?
Tutte le produzioni biologiche rispondono a una normativa europea e sono certificate di conseguenza. La nostra campagna non si rivolge al biologico ma a tutti gli altri prodotti per i quali non abbiamo un sistema di etichettatura nazionale univoco e chiaro. Sul nostro sito è possibile scaricare una Guida al Consumo Consapevole dove diamo alcune indicazioni su come scegliere carne, pesce, uova, latte e formaggi da sistemi di allevamento più rispettosi dell’animale.
Un’altra campagna è InSOStenibile sulla base della quale avete portato sei richieste al governo italiano affinché non vengano più costruiti nuovi allevamenti intensivi. In cosa consiste e perché pur sapendo quanto sia dannosa si continua ad adottare questa modalità?
L’intensificazione è iniziata decenni fa. L’idea era che produrre cibo a basso costo avrebbe aiutato a contrastare la fame nel mondo. Si pensava che questo sistema, improntato sull’intensificazione della produzione agricola, in particolare zootecnica, fosse in grado di garantire l’accesso universale e democratico al cibo, incentivando il consumo di carne e prodotti di origine animale. Ma stando all’ultimo report ONU sulla sicurezza alimentare globale, nel 2019 quasi 690 milioni di abitanti del pianeta hanno sofferto la fame: un numero superiore di 10 milioni di unità rispetto all’anno precedente e di quasi 60 milioni in più rispetto a cinque anni fa. Solo ora ci stiamo accorgendo degli impatti che le produzioni e gli allevamenti intensivi hanno e stanno causando. Sono impatti fortemente negativi che ricadono sull’ambiente, sulla salute umana e sul benessere degli animali. Si tratta di un sistema globale complesso e ad oggi invertire la rotta non è semplice. La nostra richiesta è che non ne vengano più costruiti e che venga supportata la transizione per quelli già esistenti verso modalità più rispettose del benessere animale. Per fortuna è un tema attuale su cui si sta discutendo andando oltre le apparenze. Spesso il Made in Italy viene percepito come garanzia di qualità ma la realtà è che in Italia, così come nella maggior parte dei paesi industrializzati, il tipo di allevamento più diffuso è proprio quello intensivo. Per questo abbiamo iniziato la campagna InSostenibile. Occorre sapere e rendersi conto che gli allevamenti intensivi sono capannoni industriali che contengono decine di migliaia di animali tutti ammassati. L’impatto è notevole non solo in termini di sofferenza per gli animali ma anche per quanto riguarda tutto il territorio circostante. Abbiamo quindi deciso di raccogliere le testimonianze di cittadini che “dal basso” hanno costituito dei comitati proprio per opporsi a questa situazione. Raccontiamo la miseria, la distruzione, i gravissimi impatti per la salute e per l’ambiente che i mega allevamenti intensivi comportano. (Più info qui: https://www.ciwf.it/campagne/insostenibile-la-battaglia-dal-basso-contro-allevamenti-intensivi/)
Che tipo di storie emergono da questi vissuti e che risultati state raggiungendo attraverso questo vostro impegno?
Nel 2018 con alcuni comitati di cittadini siamo riusciti a impedire la costruzione di quattro mega allevamenti nel Delta del Po. Nel 2020 abbiamo raccolto tre storie: una in Emilia-Romagna, una in Veneto e una nelle Marche. Tutte raccontano dei disagi che l’allevamento intensivo comporta. Ha provocato problemi di salute, la svalutazione del territorio e un impatto devastante sulla qualità della vita delle persone. Inoltre pone anche chiari rischi di biosicurezza. Ti faccio un altro esempio di un caso recente riguardante il Comune di Lozzo Atestino sui Colli Euganei, un territorio di per sé bellissimo. Questo comitato di cittadini sta lottando perché un allevamento intensivo che era partito con un capannone di 100.000 galline adesso ne ha 800.000. Parliamo quindi di 800.00 galline stipate. Ora vorrebbe ulteriormente allargare questi capannoni aggiungendone tre ai quattro già esistenti per ospitare così 1 milione 300.000 galline. I cittadini del territorio ci raccontano che ci sono polveri, ammoniaca, vengono alterati processi come l’impollinazione delle piante, le colture vicine vengono danneggiate perché poi l’ammoniaca e le polveri si depositano con l’umidità della notte. Questo mega allevamento va inoltre illuminato. Quindi è come avere uno stadio in aperta campagna, un pugno nell’occhio. L’impatto non è solo estetico. Ci hanno raccontato di quanto la puzza arrivi fino al paese dove giocano i bambini e di quanto sia invalidante per i rapporti sociali. E’ talmente forte che devono quindi vivere con le finestre sempre chiuse. Abbiamo mandato varie mail ai nostri sostenitori per chiedere visibilità su questa storia chiedendo loro: “E se ne aprissero uno vicino a casa tua?”. Oltre all’immedesimazione quello che dobbiamo capire è che l’allevamento intensivo è un danno per tutti, riguarda tutti non solo i cittadini interessati. L’impatto ambientale si estende su ampia scala oltre il territorio in cui risiede. Quello su cui noi lavoriamo come CIWF a livello nazionale e internazionale è una transizione sistematica. Passare da allevamenti intensivi ad allevamenti rigenerativi.


Quello che stai raccontando va avvalorare con ancora più forza il concetto di interdipendenza. Un altro tema scottante che riguarda gli allevamenti intensivi è l’utilizzo delle gabbie. Una modalità terribile che priva l’animale di ogni dignità e lo condanna a una vita di sola sofferenza. Venti associazioni italiane hanno aderito alla vostra campagna europea “End the Cage Age” che si sta battendo per eliminare completamente il loro utilizzo. A che punto siamo e quanto ci manca per uscire da questo tunnel terribile?
End the Cage Age significa mettiamo fine all’era delle gabbie. Noi ci auguriamo di essere la generazione che metterà fine all’uso delle gabbie negli allevamenti. E’ una campagna che ho seguito fin dall’inizio e che sta richiedendo sforzi immensi. CIWF ha costituito un comitato organizzativo che ha presentato l’Iniziativa dei cittadini europei a livello europeo. In seguito la campagna si è sviluppata grazie al lavoro congiunto di 170 associazioni, di cui venti italiane, coordinate a livello internazionale da CIWF. Si tratta di uno sforzo di coalizione tra associazioni animaliste, ambientaliste e che difendono i diritti dei consumatori. Quello che chiediamo è la fine dell’utilizzo di ogni tipo di gabbia per allevare animali a scopo alimentare quindi parliamo di galline, conigli, vitelli, scrofe, quaglie, oche e anatre. Abbiamo raggiunto grandi traguardi: per venire ascoltati bisogna raccogliere almeno un milione di firme certificate in tutta l’Unione Europea. Noi ne abbiamo raccolte circa 1,4 milioni. Da quando è stato istituito questo strumento, l’Iniziativa dei cittadini europei, sono state oltre 70 le iniziative promosse ma solo sei sono riuscite a raggiungere il numero di firme richiesto. Adesso siamo in un momento cruciale perché stiamo aspettando la risposta dalla Commissione Europea. Non ci sono garanzie di successo. Bisogna continuare a fare pressione sulla Commissione Europea, continuare a influenzarla positivamente, perché il tema delle gabbie negli allevamenti venga preso in considerazione e si risponda con un atto legislativo concreto.


Sul vostro sito si legge che anche Jane Goodall sta sostenendo la campagna avvalorando le vostre affermazioni con dati scientifici.
Sì abbiamo avuto due assist fantastici negli ultimi tempi: l’aiuto di 140 scienziati, tra cui l’etologa, messaggera di pace delle Nazioni Unite e PhD Jane Goodall, che hanno firmato una lettera in cui rimarcano quanto le gabbie siano una forma di massima crudeltà per gli animali e spiegano quali siano le alternative percorribili per gli allevamenti.
Per noi è stato molto importante. Spesso ci sentiamo dire: “Ah ma voi avete a cuore gli animali ma non avete a vostro sostegno fatti scientifici”. Questa lettera risponde a queste obiezioni e acquista ulteriore validità con una persona del calibro di Jane Goodall. Il secondo assist è stata una lettera da parte delle aziende. Un’altra obiezione che spesso ci viene fatta è che non ci siano alternative economicamente valide e che siamo solo degli idealisti. E invece grandissime aziende come l’Ikea, la Ferrero e la Barilla hanno scritto una lettera alla Commissione a questo proposito testimoniando che esistono delle reali e fattibili alternative alle gabbie, facendo il caso dell’allevamento di galline. Ora aspettiamo la risposta dalla Commissione UE. Dobbiamo continuare a far sentire la nostra voce. Le prossime settimane ci mobiliteremo con i nostri sostenitori. Sono tutti passaggi durante i quali non possiamo rilassarci.
Il fatto che ci siano così tante associazioni, così tante persone che hanno a cuore questo tema dà un’immensa speranza. E’ il collettivo, l’unità che genera forza. A questo proposito in tutti questi anni di vita dell’associazione ci sono esperienze di cambiamento costruttivo e risolutivo che ti sono rimaste particolarmente impresse?
Sì. Vorrei partire da una riflessione. La nostra associazione crede fortemente che gli animali abbiano il diritto di vivere una vita felice, che sia degna di essere vissuta. Hanno il diritto ad esprimere i loro comportamenti naturali. Una gallina in gabbia non può aprire le ali e questo è contro la sua natura. Una scrofa allevata in gabbia non può rispondere a quello che le dice l’istinto ovvero costruire un nido dove partorire e accudire i suoi cuccioli. Si limita e lo fa attraverso le sbarre di una gabbia. E’ una continua repressione dei comportamenti naturali. Una campagna che ho seguito durante il primo periodo in CIWF chiedeva alle catene di supermarket in Italia di togliere dal proprio assortimento le uova prodotte da allevamenti con galline in gabbia. Conad era fra quelle che ancora le vendeva. Abbiamo lanciato una campagna mobilitando i nostri sostenitori ribadendo a questa azienda quanto questo significasse favorire una forma di sofferenza estrema. Nel 2018 Conad finalmente ha pubblicato un comunicato stampa in cui annunciava che entro il 2019 avrebbe eliminato dal proprio assortimento le uova prodotte da galline allevate in gabbie. E’ stato un momento di grande gioia per noi! Ci siamo resi conto di quanto possiamo fare la differenza. Quando ero una studentessa e le petizioni non le scrivevo ma le firmavo solo, mi chiedevo “Servirà?”. La risposta è assolutamente sì. Si può davvero fare la differenza unendo le forze. Un altro cambiamento risiede nel fatto che siano aumentate le persone che chiedono informazioni per un acquisto consapevole, persone disposte a cambiare il proprio stile di vita alimentare per non finanziare forme di crudeltà come l’allevamento intensivo. Ora se ne sta parlando sempre di più anche sui media e tutti sanno di cosa si tratta. Per me questo è un segnale importante perché significa che le persone sempre di più considerano gli animali come esseri senzienti e non più come oggetti. Una campagna che abbiamo contro il trasporto di animali vivi dice: “gli animali non sono merci”. Il succo è proprio questo. Gli animali provano sofferenza fisica ma anche angoscia, paura. La nostra ultima campagna riguarda un’investigazione sugli allevamenti intensivi di salmone in Scozia. Anche per questa campagna abbiamo avuto un ritorno importante da parte dei nostri sostenitori. Il pesce solitamente suscita meno empatia ma non dobbiamo scordare che negli allevamenti intensivi soffre anche lui, anche lui è un essere senziente.


La nostra alimentazione sta impattando in maniera spropositata sul Pianeta. Ci siamo fatti prendere dall’avidità e ora ne stiamo pagando le conseguenze. Oltre a rivedere i nostri stili di vita per avere un’alimentazione più equilibrata nel rispetto di tutti e tutto, cosa possiamo fare come cittadine e cittadini nella nostra quotidianità per spezzare questo circolo vizioso e ridare a ogni essere vivente la dignità e felicità che merita?
Informarsi e tenersi aggiornati. Sono tante le associazioni che lavorano su questi temi. Si sta iniziando anche a parlarne a livello di grandi organizzazioni internazionali come l’ONU. Ti accenno che abbiamo lanciato con l’UNEP un report che abbiamo commissionato all’Istituto di ricerca britannico Chathan House. Il report tratta dell’impatto del sistema alimentare sulla biodiversità. Per quanto riguarda il consumo consapevole abbiamo uno slogan: Eat Less and Better. Il problema centrale è che il nostro sistema alimentare non è sostenibile. E’ causa di sofferenza per milioni di animali, non è sostenibile a livello ambientale perché ha un impatto devastante. Ha anche un impatto notevole sulla salute delle persone. I modelli di alimentazione devono spostarsi su diete contenenti più vegetali. Noi suggeriamo di ridurre il consumo di carne almeno del 50% e per il restante privilegiare solo prodotti che provengano da allevamenti non intensivi. Quindi allevamenti biologici e all’aperto. La rivoluzione parte da noi. Non possiamo pensare di fermare il cambiamento climatico solo usando meno la macchina e andando in bicicletta. Il nostro sistema alimentare globale, il modo in cui produciamo cibo a basso costo deve cambiare. Un’altra azione che si può fare è sostenere le nostre campagne. Un tweet lanciato a un politico nel momento giusto. Le firme dei sostenitori sono importanti perché ci danno la possibilità di essere rappresentanti di una parte della società civile che chiede un cambiamento.

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