L’ascolto della natura, il rispetto verso di essa, verso i suoi tempi che seppur a volte possano sorprendere e spiazzare hanno una loro assoluta saggezza e completezza, va sviluppato e affinato per poter comprendere davvero quanto sia inscindibile il legame che unisce l’essere umano a questa grande maestra di vita. La mano, la mente, il cuore che segue un’armonia già esistente. Che si ingegna per farla emergere e per valorizzarla, per dare respiro in forma nuova a tutto il suo intrinseco potenziale. Quando questa sensibilità viene applicata alla propria terra, al proprio lavoro che parla con e di essa, quando si ha la possibilità di vivere al 100% questo dialogo ancestrale, non si avrà limiti alla bellezza e al valore che si potranno creare. Ho intervistato Arianna durante il primo lockdown, produttrice di vini naturali nella sua azienda agricola a Vittoria in provincia di Ragusa scorcio della Sicilia di ineguagliabile splendore.
Quali sono le origini della tua azienda agricola?
Mio zio è proprietario di un’azienda che produce vini naturali e fin quando ero piccola mi ha trasmesso questa sua passione. A 16 anni andai alla fiera Vinitaly insieme a lui. Scoprii un luogo multiculturale con produttori da tutte le parti del mondo, un luogo catalizzatore di energie dal quale mi sentii subito attratta. Questa esperienza mi fece decidere a 18 anni di trasferirmi a Milano per studiare viticoltura e enologia. La teoria però non colmò la parte pratica così presi l’iniziativa di incontrare autonomamente i produttori e gli artigiani cercando di fare esperienza visiva. Dopo i primi anni a Milano iniziai però a sentire la mancanza della Sicilia. Avevo dei flash di immagini: paesaggi, luoghi piombavano nei pensieri facendo affiorare il desiderio di essere lì. Un giorno, al terzo anno di Università, chiamai mio padre e gli dissi che volevo affittare una vigna a Vittoria, il luogo in cui sono nata. Mi rispose “Statti ferma! Hai 21 anni!”. In realtà sapeva che quel giorno sarebbe finita. (Ride, ndr). Affittai così una vigna dal nome Fossa di Lupo. Ero all’ultimo anno di università, fu molto impegnativo fare su e giù, tra studi e lavoro ma riuscii comunque a fare la prima vendemmia nel 2004 che produsse metà Frappato e metà Nero d’Avola. Pochi mesi dopo, a novembre dello stesso anno, mi laureai. Il vino che produssi, nella sua semplicità, era buono, genuino, fatto bene. Decisi di metterlo in bottiglia e lo feci assaggiare al mio primo distributore. Gli piacque molto e mi disse: “Appena sei pronta avrò il piacere di metterlo nel catalogo delle triple A” che significa Artisti Artigiani Agricoltori ovvero una selezione di piccoli artigiani di vino. A quei tempi venivamo da un periodo in cui le cantine importanti erano quelle blasonate delle guide. Di sostenibilità non se ne parlava così come dei vini naturali. L’idea che però stava finalmente spingendo era di tornare alla terra, alle origini, al lavoro sulla sostanza organica, al migliorare quella piccola porzione. E io ne divenni parte.
Come sei riuscita a costruire la tua identità di viticoltrice in un periodo dove il concetto di sostenibilità non era ancora tanto diffuso?
Sono stati gli anni della formazione, delle prime scoperte, delle visite in cantina, delle cose importanti che non ti dimentichi più. Lì ho capito che il vino naturale è una parte di questo mondo, che può dare continui stimoli e che aveva un senso produrlo per dare una risposta contro un’omologazione del vino tanto diffusa e, a mio avviso, esagerata.
Nel tuo lavoro che valore ha l’ascolto e il rispetto della natura?
Hanno un’importanza primaria. Penso che l’ascolto e l’osservazione determinino le successive azioni per portare avanti la stagione. Non puoi andare a calendario o a programma. C’è un momento per fare un certo tipo di potatura, così come un primo trattamento di rame; quando piove di più ad esempio e quindi c’è più esplosione di vegetazione è necessaria più pulizia rispetto ad altri periodi. Ogni stagione è diversa e passa dall’esperienza che hai avuto nelle stagioni precedenti. Quindi l’ascolto, l’intuito, è fondamentale. Occorre capire di cosa c’è bisogno in quel momento. La vigna così come il vino mi hanno insegnato ad aspettare. Il mio carattere mi spinge a voler tutto subito, non so stare sull’attesa. Grazie a questo lavoro posso fare un grande esercizio su me stessa. Imparare ad aspettare per avere un risultato. A volte ci sono delle giornate in cui entro in cantina, assaggio il vino e penso che non sia giornata. Attendo una settimana e cambia tutto. Cambia pressione atmosferica, cambia umore e cambia vino. Il valore del tempo è un aspetto fondamentale.


Questo lavoro ha cambiato altre parti di te?
Mi ha aiutata a crescere in tante cose. Sicuramente mi ha permesso di essere più empatica nei confronti delle persone; mi ha insegnato che ci sono cose nella vita per cui non puoi fare diversamente e che lo scambio tra gli esseri umani, le relazioni, non la competizione, sono importanti. Per fortuna non sono competitiva. Per me è di ispirazione ascoltare il modo in cui un altro produttore fa vino. Mi da una visione diversa e mi insegna a rapportarmi alle persone. Avevo iniziato a produrre in modo molto individuale. Ero io e basta. Per il mio carattere gestire le cose da sola è quasi più semplice. Nel senso che da un lato voglio fare tantissimo e l’aiuto delle persone è necessario. Dall’altro sono individualista per cui riuscire a integrarmi con le persone con cui lavoro è stato difficile ma fondamentale. Il passaggio dall’essere un gioco all’essere un’azienda lo fa il lavoro di squadra tra le persone.
Che cosa ti appassiona di più del tuo lavoro?
La vita di un’azienda vinicola è divisa in più parti: il vigneto, la cantina, la trasformazione del vino e la vendita. Io amo tutti questi aspetti ma ci sono momenti in cui ne prediligo uno piuttosto che un altro. Negli ultimi anni mi sono molto appassionata al lavoro in campagna. Ho fatto un corso di potatura per esempio per poi insegnarlo al mio team che non è stagionale ma consolidato. Ho poi deciso di ampliare l’azienda ad altre colture come il grano e gli alberi da frutta in modo tale da avere una copertura totale per tutto l’anno. E’ un lavoro che necessita di conoscenze approfondite. Io ho sentito il desiderio di continuare a formarmi e affinare sempre più le tecniche nella viticoltura per migliorare il vino anche se poi, essendo naturale, è il territorio che ti parla e fa da sé.

Che cosa hai imparato durante il periodo del lockdown?
Mi ha ispirato inventarmi delle cose. E’ subentrata anche l’esigenza di far emergere inventiva di fronte a un mercato in discesa. Ad ogni modo nelle emergenze do il massimo. Le risolvo, mi attivo anziché deprimermi. Ogni tanto una bella botta di crisi mi riporta alla realtà. Mi dico “Aspetta, non è che tutto va sempre bene. Svegliati che le cose possono cambiare da un momento all’altro”. Mi da stimoli, confronti anche con i colleghi che stimo. C’è un brulicare di conoscenza. In quelle settimane mi hanno chiamato due agenti per fare un corso di formazione sui vini naturali. Solitamente li dovevo rincorrere. Le crisi portano sempre una nuova coscienza.
Che cosa rende un vino veramente buono e di qualità ?
Fondamentalmente credo che ci voglia un territorio vocato. Non sono necessariamente delle zone conosciute. Ne esistono anche di piccole con tutte le caratteristiche necessarie. Questo è l’aspetto principale. Poi ci vuole tanta sensibilità. Il vino che faccio io è il risultato di un rapporto uomo e terra molto stretto. E’ un prendersi per mano. Per fare una buona uva ci vuole una viticoltura fatta bene che abbia il rispetto del suolo, del territorio, della natura, che alimenti la biodiversità. Non sono solo parole, sono cose reali che in termini poi di gusto dell’uva fanno la differenza. Puoi avere una vigna bellissima a guardarsi ma poi potrebbe darti un’uva veramente dozzinale. La vigna non ha bisogno di essere eccessivamente fertilizzata e nutrita. In termini di sapore ha bisogno di un giusto nutrimento che può prenderlo dal suolo stesso. Ad esempio io semino delle stesse essenze al centro dei filari che quando vengono ribaltati portano poi dei nutrimenti. Un ulteriore passaggio è accompagnare l’uva in cantina con tanto rispetto. Lasciare che da sola possa esprimersi con una fermentazione spontanea quindi senza aggiunta di nulla, una fermentazione che rispecchi il tuo lavoro in campagna e che sia rispettosa delle sue caratteristiche. Io non voglio coprire con delle particolari tecniche quello che il mio territorio mi da spontaneamente. Perché in realtà non potrò mai fare meglio di quello. E’ una visione eccessivamente egocentrica pensare che l’enologo possa fare un vino migliore di quello che può fare il potenziale della natura. Quasi sempre lo rovina. Nel migliore dei casi mantiene inalterate le caratteristiche di un territorio. Ci vuole sensibilità per fare un grande vino, occorre ascoltarlo nei suoi momenti diversi. Ci vuole esperienza, capire il territorio, i venti, la tua uva. E’ importante. Così come assaggiare tanti vini. Capire la corrispondenza tra l’assaggio e quello che il produttore fa.

Ad oggi quanto è sostenibile la tua azienda e che cosa vorresti migliorare per il futuro?
Ho un’agricoltura totalmente sostenibile poiché lavoro in biodinamica. Con gli scarti di potatura facciamo dei compost preparati bio dinamici e li uso anche per gli orti e le zone più calcaree dove la pianta soffre un pò. Il ciclo del vigneto è un ciclo chiuso che con se stesso si rigenera. Lavoro in inverno sui suoli e in estate sulla chioma. Il lavoro sul suolo è importante perché è quello che poi da alla pianta il suo sostentamento. Non irrigo e quindi non ho uno sbilanciamento idrico a svantaggio delle falde, in più tengo tantissimo al valore e all’equilibrio della biodiversità quindi metto tante colture insieme mantenendo la macchia mediterranea. Piantumo delle cose quando ce n’è bisogno, oltre ai solesci che ti danno un’infinità di fiori e insetti. Da quando ho inserito il grano, gli alberi da frutta, l’orto è diventato un ecosistema molto più protetto e forte. Tutto quello che faccio crea un circolo agricolo chiuso solo in apparenza perché in realtà è aperto nelle sue intenzioni, idee e ideali. Il mio desiderio è che questo tipo di coltivazione sia da esempio. Vedo intorno a me un territorio molto particolare che ha subito un’industrializzazione agricola importante negli anni 60 con l’arrivo delle serre. Anche l’agricoltura si è trasformata, è diventata più industriale e di massa e quindi queste aziende agricole, più sostenibili, sono importanti, significative per l’esempio che possono dare al territorio.
C’è reciproca ispirazione tra di voi, tra le varie aziende viticole in Sicilia?
Sì. Su questo territorio c’è un bello scambio con mio zio che ha ancora la sua azienda che produce vini naturali, con amici sparsi tipo Nino Barraco a Marsala, Giovanni Scarfone nella zona del faro e anche con amici della zona sull’Etna. E poi anche a livello nazionale. Faccio parte di un’associazione che si chiama Vi.Te, che sta per vignaioli e territori, e di cui fanno parte tante altre bellissime aziende in Toscana, Trentino, Emilia Romagna ecc.. Facciamo un evento insieme ogni anno e ci scambiamo notizie, formazione. E’ una fonte di contaminazione veramente fondamentale.

La vostra azienda è aperta anche a esterni?
Pre emergenza sanitaria da aprile a ottobre sono sempre venute a visitare l’azienda tante persone da tutto il mondo. Appassionati e privati che si trovano in Sicilia e decidono di passare anche da qui. Ci sono due ragazzi all’interno dell’azienda che si occupano proprio di questo. Io mi dedico di più alla produzione.
Com’è il tuo rapporto con la Sicilia?
Ho avuto la fortuna di essere nata in un posto ed essere cresciuta in un’altro. Sono nata a Marsala e sono cresciuta a Vittoria. Dove sono cresciuta e dove vivo tutt’ora rappresenta una parte che ho scoperto in una seconda fase della mia vita e di cui vado molto orgogliosa. C’è comunque uno scambio continuo con Marsala che iniziò durante la mia infanzia quando passavo tre mesi, quelli estivi, dai nonni. Il contatto con il mare, con una cultura diversa… Ho un rapporto con la Sicilia molto variopinto e abbastanza diffuso perché mi piace tutta. Ogni 30 km cambia. Nella cultura, nelle persone, nei paesaggi. Mi ha molto contaminata e me la sento addosso avendo vissuto in varie zone e avendo preso da ognuna di esse qualcosa di positivo. Tifo tanto per la cultura siciliana ma anche per la contaminazione. Amo tanto i siciliani che decidono di andare a fare esperienze fuori dall’isola e poi tornano. Mi sento di voler stare qua e continuare a viverla. La Sicilia è una terra in cui c’è un sacco da fare e non riuscirei a trovare altro luogo dove ci sia più necessità di cambiare le cose. Nel mio piccolo sto cercando di farlo.
Hai iniziato questo lavoro da giovanissima in un ambiente prevalentemente maschile. Hai mai vissuto discriminazioni di genere o di età?
Sul mercato internazionale no. I miei primi 10 anni sono stati importanti e difficili su alcuni aspetti. Quando sei donna e giovane il mercato crede che tu possa fare delle cose fatte bene ma le devi fare in modo continuativo perché se non mantieni il ritmo per alcuni anni perdi di credibilità. Nei confronti di qualsiasi persona con cui devi interfacciarti. Può essere un operaio, un cliente o un fornitore. Io ho iniziato subito con i mercati internazionali come l’America che effettivamente è il paese delle opportunità e da questo punto di vista non sono discriminatori ma ti danno la possibilità di diventare qualcuno anche se sei giovane o hai un’azienda di piccole dimensioni. E poi con il Giappone. Da questo punto di vista non ho mai avuto problemi. Ne sono sorti alcuni con i fornitori all’inizio. Tu ventenne se parli di tappi e bottiglie con uomini cinquantenni… non ti viene subito facile. Non apparivo credibile e lo vedevo dai loro occhi. Poi piano piano me li sono conquistati. Adesso si sono invertiti i ruoli. C’è un momento in cui devi faticare e un momento in cui arrivano i risultati.
C’è un’esperienza che hai vissuto in questi anni che ricordi con particolare affetto?
Penso a una persona che ho rivisto da poco dopo tanti anni. Era tra le persone che mi insegnarono a potare quando avevo 21 anni. Quando iniziai mi disse: “Ah signorì ma che la sta a fotografare questa vigna?”. Per dire che ci stavo mettendo tanto tempo. Mi disse: “Lei ha studiato, ma chi glie lo fa fare? Neppure il mio figlio maschio starebbe qua”. Ho cercato di convincere lui e gli altri e iniziò questo rapporto. Questo signore lo ritrovai in una vigna di un’amico il mese scorso. Quando mi ha vista ha esclamato: “Signorì non ci credo!”. Mi ha guardato con tutta la sua ammirazione, ci siamo fatti una fotografia e ci siamo raccontati il percorso fatto. Queste sono soddisfazioni. Conquistare la stima di una persona semplice che custodisce il sapere della campagna ha per me un valore inestimabile.
Che consiglio daresti a una giovane che vorrebbe intraprendere questo lavoro?
Sicuramente cercare di scoprire l’essenziale del vino, la parte intima nel rapporto con le persone, con la natura. Non avventarsi nel mondo del vino oggi solo perché l’agricoltura naturale e sostenibile è di moda perché bisogna ricordarsi che la moda cambia. Occorre capire realmente quello che si vuole fare e come lo si vuole fare e sicuramente approfondire la parte della produzione. Il vino naturale bisogna veramente saperlo fare e non solo saperlo vendere. Nel mio settore fare un vino buono è la cosa più importante, sopratutto per una donna. Ci sono tantissime donne in Italia nel mondo del vino e la maggior parte lavorano per la parte del marketing e comunicazione. Molto meno nella parte della produzione. Penso che ci vogliano più donne anche qui.
Pensi che la sensibilità della donna porti un valore aggiunto?
Ci sono vini prodotti da aziende guidate da colleghi uomini che sono meravigliosi e che forse un’altra donna in quel luogo non avrebbe saputo fare di meglio. Mi piace molto però la tipologia di azienda che riescono a creare le donne. Lo stile, la squadra, l’equilibrio tra le persone. In questo penso che una donna riesca ad avere una sensibilità più ampia. Sul progetto, sul dettaglio, la sostenibilità nel vero senso della parola. Sì, penso che le donne possano dare un valore aggiunto.
Ti ho spremuto come le olive con cui fate l’olio. Fate anche l’olio vero?
Sì. Le olive sono quelle che nascono dagli ulivi con tronchi secolari. Hanno visto di tutto. Guerre, pandemie … e hanno resistito.
Meraviglioso!!!