Consulente internazionale per il miglioramento genetico delle piante con oltre trent’anni di esperienza nella gestione della ricerca per lo sviluppo in Africa e Asia. PhD in produttività delle piante coltivate con specializzazione in Miglioramento Genetico, presso l’Università di Perugia. Viaggiatrice instancabile per promuovere la biodiversità e l’adozione di metodologie partecipative per il miglioramento genetico delle piante, principalmente di colture quali l’orzo, il sorgo e il miglio, con particolare sensibilità agli aspetti di genere, all’adattamento ai cambiamenti climatici, alle esigenze degli agricoltori e dei consumatori, e alla gestione e all’uso efficiente delle risorse genetiche. La carriera di Stefania Grando è come immergersi in un mappamondo di storie ricche di affascinanti culture, storie virtuose piene di umanità, rivelatrici delle nostre comuni radici, di quella che potremmo definire la famiglia del genere umano; storie dense anche di temi scottanti quali le disuguaglianze, il ciclo della povertà, la fame nel mondo. Nel corso della sua carriera ha collaborato con ricercatori in Australia, Algeria, Bhutan, Burkina Faso, Eritrea, Etiopia, Iran, Giordania, Kenya, Libia, Mali, Marocco, Nepal, Niger, Nigeria, Pakistan, Tunisia, Uganda, Yemen e Zimbabwe. Ho avuto l’onore di conoscerla l’anno scorso insieme a suo marito il genista Salvatore Ceccarelli con cui ha scritto il libro Seminare il futuro incentrato sul ruolo cruciale che hanno i semi per il nostro futuro, per la biodiversità, per contrastare il cambiamento climatico, per l’economia globale e non da ultimo per la nostra salute. Qualche settimana fa ho deciso di risentire Stefania e di realizzare un’intervista che abbracciasse il suo vissuto personale a tutto tondo. Ascoltare la sua esperienza incentrata nell’ aiutare “i più poveri dei poveri”, nel trovare soluzioni anche per gli ambienti più ostili, a creare relazioni umane di immenso valore per costruire insieme, nessuno escluso, un futuro migliore, mi ha fatto riflettere su quanto sia forte e di straordinaria bellezza il contributo che una singola persona preparata, determinata e umile sia in grado di dare all’intera umanità.


Partiamo dagli inizi. Com’è nata la tua carriera?
Ho cominciato come borsista all’università di Perugia dove ho conseguito il Dottorato con una tesi di ricerca svolta all’International Center for Agricultural Research in the Dry Areas (ICARDA) ad Aleppo in Siria. L’ambiente dell’università mi aveva molto scoraggiata e quindi decisi che sarei andata a lavorare all’estero. Sono riuscita ad avere una posizione presso l’ICARDA come post-doc, nel marzo del 1987. L’idea era quella di rimanere due anni ma poi invece sono diventati 25. Mi sono occupata di miglioramento genetico dell’orzo, prima come ricercatrice poi come manager del progetto orzo che aveva mandato di migliorare la coltura dell’orzo nei paesi in via di sviluppo a livello mondiale. Questo ha comportato alcune sfide. La sede del centro era ad Aleppo ma avrei dovuto seguire contadini in tutta una serie di paesi: Asia, Africa e America Latina. Offrire ai contadini diverse scelte di orzo. A giugno del 2011, appena all’inizio della guerra scoppiata in Siria, ho dovuto scegliere di lasciare il posto a causa di forti discriminazioni interne. Pensavo che sarei rimasta all’ICARDA fino alla fine della mia carriera ma purtroppo non è stato così. Ci siamo quindi trasferiti in Francia dove ho lavorato nell’ufficio del Consorzio del CGIAR a Montpellier per circa due anni fino a quando nel 2013 ho avuto un posto da Direttrice del programma Cereali all’International Crops Research Institute for the Semi-Arid Tropics (ICRISAT) a Hyderabad in India, dove mi sono occupata di migli e di sorgo in una zona che andava dall’ India all’ Africa occidentale. L’anno in cui ho concluso il lavoro avevo 60 anni. Eravamo in cinque persone nella stessa posizione. Due donne e tre uomini. Sarà un caso ma solo a noi donne non è stato rinnovato il contratto per raggiunti limiti di età. Quindi sono tornata in Italia e ho deciso di andare avanti con le consulenze.
Nonostante le discriminazioni che hai vissuto sei comunque andata avanti, non ti sei mai arresa nel perseguire i tuoi obiettivi. Da dove nasce questo tuo instancabile impegno, questa tua totale dedizione e passione?
E’ stato fondamentale il lavoro con mio marito. Continuare a discutere, a parlare, a porci domande, ad aggiustare quello che facciamo, a non accontentarci mai. Questo è quello che ci ha mandato avanti e che ci manda avanti anche oggi. Personalmente tutto è partito dalla scelta di lasciare l’università. Lì veniva soddisfatta la mia voglia di sapere e di rispondere alle domande che avevo ma non aveva un fine che andava oltre. All’epoca mi occupavo di creare nuove varietà di orzo ma iniziai a chiedermi: per fare cosa? Per aiutare chi? Quando sono arrivata in Siria vidi subito la differenza. Lì potevo aiutare persone che avevano bisogno. Le missioni di questi centri in cui ho lavorato erano di aumentare la produzione agricola per diverse colture o per animali in paesi in via di sviluppo. Quello che nel tempo abbiamo cercato di fare era di lavorare quindi per gli agricoltori più bisognosi. Io feci proprio la scelta di lavorare per i più poveri dei poveri. Nei contesti sociali in cui sono stata ho visto che spesso le donne e i bambini sono le persone che più soffrono. Ho sentito che la mia missione era di indirizzare la ricerca per poter aiutare queste persone cercando varietà con un valore nutritivo più alto, varietà che si possano vendere meglio al mercato. Da questo è scattato tutto il lavoro fatto con gli agricoltori, dalle zone più centrali a quelle più remote. Quando parlo di agricoltori parlo in generale: uomini, donne, spesso anche il nucleo famigliare.
In queste comunità presenti in Africa e in Asia esistono forti discriminazioni nei confronti delle donne. Come hai fatto ad inserirti e a collaborare con loro?
Ho vissuto diverse esperienze a riguardo. Mi sono sentita accolta famiglie siriane che vivevano nella steppa, nelle più umili condizioni, dove per loro è sacro far sentire a casa l’ospite straniero. Non conta se uomo o donna. Mi sono ritrovata invece in una famiglia altolocata in Giordania, benestante all’eccesso, a dover mangiare in cucina con la moglie e la figlia del padrone di casa mentre tutti i miei colleghi, uomini, nella sala da pranzo. Questa per loro è l’abitudine e dimostra che laddove si penserebbe esserci più apertura mentale in realtà non c’è. In ogni situazione, in ogni realtà cerco di arrivare con la mente pulita, senza preconcetti. Ma c’è voluto del tempo per sviluppare questo spirito di osservazione. Da giovane, appena arrivata in Siria vedevo la situazione delle donne nei villaggi che era diversa da quella delle donne nelle città. Mi veniva da urlare, mi saliva il sangue alla testa ma poi ho capito che non avrei ottenuto nulla ad agire in quel modo. Il mio lavoro non era il contesto giusto per sollevare certe questioni. Quindi il fatto di non interferire nelle dinamiche delle comunità è il primo passo. Occorre ascoltare sia donne che uomini, ascoltare i loro problemi anche se in quel momento non sono il motivo per cui sei andata lì. Questo permette a loro di capire che sei disposta ad aiutarli, ti permette di poter conquistare la loro fiducia così da poter entrare anche nell’ambito del tuo lavoro e creare uno scambio costruttivo. Siccome per loro l’innovazione è importante per la sopravvivenza della comunità ed essendo la loro agricoltura portata avanti in situazioni estreme, per loro a prescindere dal genere sei ben accetto se vuoi intavolare un discorso per capire cosa fare insieme e migliorare la situazione.


In che modo siete riusciti a coinvolgere le donne dei villaggi in questi confronti?
Sono contesti in cui discutiamo spesso solo con uomini. In alcune delle zone in cui abbiamo lavorato le donne non possono muoversi da sole, neppure da una casa all’altra. Ed è questo anche il motivo per cui l’istruzione è riservata ai figli maschi essendo le scuole spesso a 10 km dal villaggio. Anche se le donne non vengono coinvolte in certi contesti, il fatto di passare del tempo con loro, con la famiglia, ti porta poi in alcuni casi a poter ascoltare tutte e tutti. E’ successo ad esempio nella zona nord dell’Egitto. Mi è capitato di essere stata accettata dalla famiglia e quindi di poter passare allo step in cui mi presentavano anche la moglie del capo famiglia. Lì ho avuto la possibilità di confrontarmi e di vedere quali possono essere i problemi dalla prospettiva femminile. Nell’ambito del miglioramento genetico quindi della selezione di nuove varietà di miglio, sorgo o orzo ho potuto vedere quali sono le differenti necessità. Spesso gli uomini ti danno caratteristiche legate al mercato mentre le donna pensa alla famiglia quindi cerca prodotti che possano resistere di più temporalmente, prodotti che abbiano più nutrienti e che possano essere usati sia dai bambini che dagli adulti.
Salvatore l’anno scorso raccontò un episodio che mi colpì molto. Disse: “Ci troviamo molto a disagio in questo periodo dove si parla di colore della pelle, di razze e di religioni che contrasta molto con la nostra esperienza. Ad esempio per arrivare ad Aleppo e fare le condoglianze per la morte del padre di Stefania due contadini musulmani hanno fatto 200 km in bus che là significa sedere ai bordi della strada e non sapere dove andrai”. Questi incontri in che modo hanno cambiato la tua vita? Ne ricordi altri?
Eravamo molto affezionati sia a loro che alle loro famiglie e lo siamo ancora. Abbiamo avuto solo qualche scambio di mail negli anni a seguire perché la zona della Siria in cui vivono è andata sotto l’ISIS. Sappiamo solo che sono vivi. Quello che ha descritto Salvatore fu un episodio che dire commossa è dire poco. Ho lasciato l’Italia proprio nel periodo in cui è iniziata ad esserci più multi etnicità. Quindi una volta tornata ho subito notato le differenze di trattamento nei confronti di persone provenienti dal Nord Africa o dal Medio Oriente. Un altro episodio che mi è rimasto impresso è avvenuto in una famiglia beduina del Nord Egitto dove mi recavo più volte all’anno. Era la terza volta che mi vedevano e proprio in quei giorni morì Giovanni Paolo II. Il capo famiglia dimostrò di avere una conoscenza del cristianesimo che mi mise in imbarazzo perché io dell’Islam sapevo molto poco. Avrei voluto ci fossero altre persone lì con me, soprattutto coloro che parlano male dei musulmani. Mi fa male sentire queste cose. Dopo questo confronto andò nella sua camera e tornò con un bracciale d’argento. Mi disse: “Questo è stato di mia madre. E desidero lo tenga tu. Mi ha fatto molto piacere parlare con te oggi. Grazie per tutto quello che stai facendo per noi”. Mi spiazzò completamente. Io gli stavo mandando nuove varietà di orzo per fargliele testare, stavo facendo il mio lavoro, nulla di speciale. Per loro invece era tanto. Ho avuto tante altre esperienze. Negli ultimi tempi mi è capitato di vedere in Africa persone che avevo incontrato una volta o due, ricordarsi di me. Si ricordavano il mio paese di provenienza, sono venute a trovarmi in albergo, portandomi sempre qualcosa in dono. Hanno una generosità straordinaria. Spesso quello che ti regalano se lo tolgono da addosso. C’è un detto, una forma di agire in molti paesi arabi nei confronti degli ospiti: se tu guardi qualcuno e dici che è bello il vestito, loro te lo regalano. Un altro episodio a questo proposito è avvenuto in Siria a est di Aleppo. C’era un contadino che faceva il guardiano del campo dove lavoravamo e tutte le volte che vedeva arrivare Salvatore e me ci veniva incontro con la sua teiera per portarci il the caldo soprattutto nei periodi più freddi. Un giorno la moglie mi regalò un suo vestito tipico della parte rurale siriana che aveva appena comprato. Ho conosciuto persone con un cuore grandissimo.

Questi meravigliosi legami umani che hai creato riflettono il tuo sincero impegno nell’aiutare concretamente gli altri. A questo proposito insieme a una tua collega australiana avete coniato il concetto di “cibo intelligente”. Di cosa si tratta?
In India mi occupavo principalmente di un programma dedicato a sorgo e miglio, alimenti importanti nei paesi in via di sviluppo poiché molto nutrienti. In questi anni però sono stati messi da parte. I migli sono stati sostituiti con riso e frumento, il sorgo con il mais quindi con colture che producono alimenti meno nutrienti e che richiedono più input di acqua e di interventi chimici. Sia la ricerca privata che pubblica hanno investito per anni su poche colture che possono produrre cibo in quantità maggiori e a basso costo al fine di sfamare più persone anche se le cose non sono andate come si erano professi. La malnutrizione e la fame nel mondo stanno aumentando. Inoltre se la qualità del cibo è bassa il problema della malnutrizione persisterà. Frumento, riso, mais sono ancora però le materie prime più utilizzate e richieste perché sono diventate di interesse economico per le ditte sementiere e per gli indotti per la trasformazione agro alimentare. Io e una mia collega dell’ICRISAT in India, coscienti di tutto questo, abbiamo deciso di iniziare una campagna per riportare nei campi sorgo e miglio, che non solo sono cibi nutrienti per le persone ma hanno anche un basso impatto ambientale e sono redditizi per l’agricoltore. Da questa riflessione è nato il concetto di “cibo intelligente”, un cibo buono per le persone, per l’ambiente e per l’economia. Andando avanti abbiamo cercato di valutare altri alimenti ed includerli in questa definizione. Ne fanno parte ora anche le popolazioni evolutive, i miscugli, l’orzo e i legumi.
(Per approfondire: qui di seguito il link del TEDx che Stefania ha tenuto a Varese dal titolo Per salvare il pianeta occorrono cibi intelligenti)
Quanto pensi sia possibile per il 2030 realizzare effettivamente il secondo obiettivo dell’Agenda ONU per lo sviluppo sostenibile “eliminare la fame nel mondo”?
Per quanto riguarda cibo, malnutrizione e fame siamo molto indietro. Un rapporto sullo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo, pubblicato ogni anno da cinque agenzie delle Nazioni Unite (FAO, IFAD, UNICEF, WFP and WHO), riferisce che fino al 2014 c’è stata una graduale diminuzione della denutrizione nel mondo. Dal 2015 il numero e la percentuale di persone denutrite sono tornati a crescere, facendo pensare che il secondo obiettivo dell’ Agenda non sarà realizzato. Inoltre occorre osservare come la ricerca nel settore agricolo è stata gestita a livello internazionale. Purtroppo i centri come quelli in cui abbiamo lavorato noi si basavano su finanziamenti pubblici la cui maggior parte sono ora ridotti a zero. Stanno aumentando invece i finanziamenti da parte di fondazioni private che però comportano un grosso rischio: decidono loro cosa finanziare e dove vogliono andare, senza margini di confronto. Le priorità che mettono sono sempre basate su cibo che si può produrre in grande quantità ma poco nutriente che non risolve il problema della malnutrizione e, come abbiamo visto, neppure della fame nel mondo. Inoltre è una modalità che mette da parte i piccoli agricoltori che coltivano in condizioni estreme ma che prestano attenzione a tanti fattori come detto in precedenza: il valore nutritivo, l’assenza di sostanze chimiche, l’adattamento al suolo quindi il rispetto per l’ambiente e la loro emancipazione ed indipendenza nei confronti dei produttori di sementi.
Come si potrebbe risolvere secondo te Stefania la disuguaglianza presente nella distribuzione dei fondi?
Un problema purtroppo è che servirebbe un impegno serio da parte dei paesi donatori non per sistemare quello che viene prodotto nel proprio paese, ma per aiutare i paesi a produrre in autonomia. Ti faccio un esempio teorico: se un paese europeo fornisce fondi all’Etiopia per sviluppare il settore agricolo ma poi l’agenzia del paese donatore decide che tutti gli interventi e le costruzioni dovranno essere progettate e realizzate con professionisti e materiale proveniente dal proprio paese, capisci che i fondi non verranno davvero investiti in Etiopia ma che torneranno al paese da cui provengono. Ho visto così tanti fondi sprecati. Ci vuole un coordinamento migliore così come una migliore volontà. Mi è capitato di vedere anche funzionari disprezzare i contadini delle zone rurali e definirli retrogradi. Non c’è nessun agricoltore retrogrado. C’è chi ha più mezzi e chi ne ha meno. Lo sanno anche loro che il concime farebbe bene alle piante ma non ce l’hanno, non hanno i soldi per comprarlo. In questi anni noi abbiamo cercato di aiutarli. La ricerca partecipativa e l’uso di popolazioni evolutive sono state fondamentali per rendere i contadini indipendenti e aiutarli nei raccolti.
Hai visto anche contributi positivi?
Certo, tanti. Sia io che Salvatore se siamo riusciti a fare tutto quello che abbiamo fatto è anche grazie al governo italiano. Ho conosciuto personale che lavorava nei Ministeri con una grande voglia di sostenere tutto quello che facevamo. Ci sono esempi positivi, il problema è vedere come questi si bilanciano. Quello che mi preoccupa è questo cambiamento nei contributi e nell’accesso ai fondi. Il passaggio da un sistema prevalentemente pubblico a un sistema prevalentemente privato. Ti può aiutare in termine di efficienza ma non va ad aiutare la fascia più povera.
Sono davvero profonde le disuguaglianze presenti ad oggi.
Consiglio la lettura di un libro uscito nel 1989 di Graham Hancock Lords of Poverty in cui parla del problema degli aiuti internazionali ai paesi in via di sviluppo. L’ho letto almeno tre o quattro volte in periodi diversi. Ogni volta che lo rileggo lo trovo sempre attualissimo perché riporta gli stessi problemi, più o meno accentuati e sono sempre gli stessi. I soldi vengono dati per poi essere ripresi. Abbiamo sempre pensato di avere un modello di sviluppo efficace e di imporlo ad altri alle nostre condizioni ma il nostro modello di sviluppo è davvero migliore di quello degli altri? Per come siamo mi pare di no. La rivista Nature l’anno scorso, così come tanti studi anche più recenti, ha messo in relazione la diminuzione della biodiversità e la distruzione degli ecosistemi all’insorgere di pandemia. Questo è il nostro modello di sviluppo.
Dobbiamo invertire la rotta, ognuno di noi. Il tema della fame nel mondo non può lasciarci indifferenti. Inoltre non possiamo continuare a considerarci il centro del mondo e pensare egoisticamente solo al nostro benessere poiché, come abbiamo visto, l’interconnessione esiste. Qual è la tua esperienza a riguardo?
Io mi ritengo fortunata ad essere nata dove sono nata. Per quanto l’essere donna può avermi limitato in alcune cose, ho comunque avuto accesso all’istruzione, al cibo, a tutto quello per cui ho avuto accesso per arrivare a dove sono ora. Per cui poi senti di dover ridare qualcosa all’umanità, soprattutto a chi non ha avuto la tua stessa fortuna. Qual è la differenza tra una persona che è nata un certo giorno in Italia e un’altra che è nata lo stesso giorno in Etiopia? La differenza sostanziale non esiste. Le potenzialità sono le stesse. Il problema sono le possibilità, le circostanze in cui cresciamo. E’ stato dimostrato che la nutrizione nei primi 1.000 giorni di nascita è cruciale per lo sviluppo intellettivo di una persona. Se tu sei nato in una famiglia povera e in quei 1.000 giorni non hai accesso a un cibo nutriente, avrai uno sviluppo intellettuale inferiore. Questo vuol dire che non uscirai mai dalla povertà. L’istruzione sarà limitata, quindi avrai difficoltà a trovare un posto di lavoro con un’alta retribuzione e i tuoi figli avranno lo stesso problema.
Questo scenario triste, questa realtà che puoi decidere di non vedere poiché non sotto i tuoi occhi è qualcosa di cui tutti siamo responsabili. Cosa possiamo fare concretamente come cittadini per contribuire a un cambiamento?
In quanto consumatori c’è tanto che possiamo fare. Prima di tutto scegliere bene il cibo che compriamo, conoscere bene la provenienza e favorire filiere produttive virtuose, piccoli agricoltori. Ci sono già alcuni esempi che dimostrano quanto sia impattante sia sulla nostra salute sia sull’ambiente favorire cibi meno trasformati e favorire l’acquisto di prodotti di stagione. E’ importante inoltre mantenere la diversità in quello che acquistiamo e mettiamo sulla tavola perché questo permette all’agricoltore di coltivare biodiversità. Anche il nostro intestino è ricco di biodiversità quindi più gli proponiamo diverse varietà di cibo nutriente più preveniamo l’insorgere di patologie. Ci sono tantissime cose che possiamo fare. Abbiamo un grande potere e dobbiamo usarlo al meglio.

Foto in copertina: India, Rajasthan. Visita ad agricoltori che coltivano miglio perla in alcune delle zone più aride dell’India. Settembre 2015.

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