L’essenza, la sostanza, l’identità unica che ognuno e ognuna di noi possiede. Poi c’è la forma. Quella che si vede nell’immediato, l’aspetto che avvolge il tutto e che riflette, inscindibilmente, ciò che abbiamo dentro, ciò che siamo. Una forma che varia continuamente da persona a persona, che non si ripete mai identica e che allo stesso tempo è così simile, così familiare, così riconducibile all’essere parte di un’unica grande famiglia. Le differenze però sono proprio il motore che anima nuove consapevolezze che scuote le coscienze e che riporta il focus su ciò che conta davvero: crescere insieme proprio grazie, attraverso, a partire dalle reciproche diversità. Il lavoro di Angélica Dass, Humanae, mi ha affascinata proprio per questo. Per il potente impatto che esercita in chi lo osserva. Tanti volti, tanti colori, fisionomie, culture, discendenze, un mosaico di volti che insieme formano un’opera d’arte straordinaria. Una diversità che appare lampante, disarmante poiché viva, reale, inevitabile, poiché specchio del nostro mondo così pieno di contraddizioni ma anche così immensamente meraviglioso. Angélica cerca di documentare i veri colori dell’umanità che non si possono ingabbiare nel semplice nero, bianco, rosso, giallo ma che hanno infinite sfumature, infinite bellezze e particolarità. Humanae è un progetto in continua evoluzione. Lo sfondo di ogni ritratto è colorato con una tonalità di colore identica a un campione di 11×11 pixel prelevato dal naso del soggetto e abbinato al pallet industriale Pantone®, che, nella sua neutralità, mette in discussione le contraddizioni e gli stereotipi legati al problema della razza. Angélica attraverso open call ha raccolto l’adesione di 4.000 volontari realizzando fino ad oggi ritratti in 20 diversi paesi e in 36 città del mondo grazie al supporto di istituzioni culturali, soggetti politici, organizzazioni governative e organizzazioni non governative. Il dialogo è il cuore di tutto, un dialogo che Angélica ha portato anche nelle scuole dove svolge laboratori per sensibilizzare anche i più piccoli a questi temi. Un dialogo che non conosce barriere e che abbraccia ogni tipo di identità, di credenza, di condizione fisica. Perché ogni singola persona , nessuna esclusa, è parte integrante del progetto Humanae.
Perché hai deciso di dedicarti alla fotografia artistica?
Ho studiato Belle Arti e in seguito mi sono specializzata in Scenografia e Costume. Diventare una fotografa non è mai stato nei miei piani ma la fotografia è sempre stata al mio fianco per tutta la mia vita. Mio padre amava fare foto. Quando sono uscita dalla pancia di mia mamma lui era lì con la macchina fotografica. Ho avuto quindi l’opportunità di conoscere da sempre questo strumento e di utilizzarlo fin da quando ero molto giovane. Quando mi trasferii in Spagna cercai un lavoro che potesse essere all’altezza di quello che avevo in Brasile sempre come costumista e scenografa ma non fu possibile quindi iniziai a lavorare in un negozio di abbigliamento. Fu proprio in quel periodo che pensai a quello che sapevo fare bene fin da quando ero bambina e così pensai alla fotografia. Inoltre la mia prima laurea è stata in Fashion Design per cui ho unito le due cose. Scrissi ad alcune riviste in Brasile e solo una mi rispose, Creative. Così iniziai a lavorare per loro e mi chiesero di andare a Parigi per fotografare lo street style, le mostre, quello che succedeva in giro. Era lo stesso editore dell’edizione di Marie Claire in Brasile quindi iniziai a fare alcuni lavori anche per loro. Poi lavorai anche per Marie Claire Spagna e altre riviste di Condé Nast. Nel 2011 tutto cambiò. Ero triste e frustrata soprattutto perché le foto che scattavo si nutrivano di stereotipi. Io non mi vedevo mai rappresentata nelle foto che scattavo, nessuno mi somigliava. Così decisi di tornare a scuola, di fare un Master in fotografia e di concentrarmi su ciò che volevo davvero raccontare attraverso le mie immagini., su ciò che volevo condividere con le persone E’ stato quello il momento in cui ho iniziato a lavorare a Humanae che ora è famoso in tutto il mondo.
Come si è sviluppato in questi anni questo progetto?
Le prime due foto che ho scattato erano una mia e una di mio marito perché io sono marrone e lui è rosa. Ero curiosa di sapere come la gente avrebbe chiesto del colore dei miei figli. Come sai sono nata e cresciuta in Brasile in una famiglia molto colorata, e ovviamente questa diversità nella mia casa era qualcosa di naturale, ma fuori era completamente diverso. Ho iniziato a fare delle ricerche sulla mia famiglia ma quello che ho imparato e che ho cercato di spiegare ai miei amici e ad altre persone è che questo lavoro non riguarda me e la mia famiglia, riguarda noi in generale. Ho fatto delle open call di partecipazione al progetto e le ho messe su Facebook. Sorprendentemente molte persone hanno iniziato a venire nel mio studio. Questo è stato il primo livello di multiculturalità di questo progetto perché erano persone che venivano da Madrid mentre le altre hanno un background completamente diverso. Un altro aspetto interessante dell’inizio di questo progetto è stato quando ho realizzato i primi ritratti in luoghi all’aperto e non associati alla galleria. Eravamo a Parigi, con molte persone, lingue e nazionalità diverse, e ho scattato in due luoghi distinti: uno vicino alla sede dell’UNESCO quindi un luogo legato alla cultura, al benessere. Un altro dove la gente vive per strada senza speranza e cercando di capire cosa ci stanno a fare in questo Pianeta. Quando si parla di diversità non riguarda solo il colore, ma ciò che siamo veramente come esseri umani. Significa quindi anche status economico sociale, orientamento sessuale, nazionalità, dove sei nato e dove vivi, tutto quelle cose diventano parte di questo lavoro. Diversi luoghi, istituzioni, molti musei in tutto il mondo hanno iniziato a interessarsi a Humanae e a chiamarmi. E quando vogliono solo esporre io rispondo sempre di no perché non si tratta solo di una mostra ma di generare una conversazione. Si tratta di dialogare su cosa possiamo davvero fare per creare il futuro che desideriamo.
Al centro del tuo lavoro c’è lo scambio, la connessione tra le persone. In che modo questo progetto ha influito sulla loro vita?
Molte persone dicono che c’è un prima e un dopo aver visto le mie foto. Con Humane è come creare uno specchio in cui tu puoi vedere facce che non assomigliano alla tua. Il momento in cui percepisco maggiormente questo prima e questo dopo è quando lavoro con i bambini nelle scuole. Penso sempre che lavorare con loro sia il modo per materializzare tutti i desideri che ho. Ho una lettera in cui gli insegnanti dicono che c’è stato un prima e un dopo anche per i bambini quando hanno visto le mie foto. Nessuno scherza più sulla differenza di nazionalità, perché sanno quanto possa essere doloroso. Ho davvero la speranza che la futura generazione abbia la capacità di cambiare questa narrativa. Di recente ho pubblicato un libro dedicato ai bambini, a lettori dopo i 5 anni. Ho appena ricevuto dei feedback e uno di questi è davvero divertente. “Se ti sei mai chiesto perché la razza è una costruzione sociale, questo libro è per te, per i tuoi figli, i tuoi amici, i loro figli, gli amici dei tuoi figli…Ogni famiglia ha bisogno di leggere questo libro insieme”. Questa è la grande missione. Le foto, il libro, la conversazione. Come possiamo far parlare davvero l’intera società riconoscendo che siamo tutti esseri umani, siamo tutti uguali e allo stesso tempo siamo completamente diversi? Perché questa diversità significa essere umani. Riconoscendo che siamo la stessa specie e che ognuno di noi è unico. Sono così felice perché il mio lavoro ha creato molte conversazioni in tutto il mondo.
Che ruolo ha per te l’educazione?
E’ molto importante. Mi chiedo sempre cosa possono fare e cosa possono dare i ragazzi. Li spingiamo ad essere responsabili del cambiamento ma come possiamo dare loro gli strumenti per fare questo cambiamento? Ho un’altra storia che vorrei condividere con te e che mostra quanto sia potente lavorare con i bambini. Quando sono in giro per conferenze cerco sempre di visitare, come volontaria, le scuole che ci sono nella zona. Poco tempo fa ero a Barcellona. È stato bellissimo perché la madre di un bambino mi ha scritto un messaggio. “Congratulazioni. Mio figlio ha lasciato la scuola orgoglioso di averti conosciuto e ci spiegato con i suoi 7 anni che il suo colore è un marrone familiare. L’intera famiglia supporta il progetto che stai portando avanti. Sono anche un insegnante e voglio parlare di Humanae nella mia classe. Mio figlio è diventato il mio insegnante grazie a te”. È stupefacente. Questo è il motivo per cui penso che l’istruzione sia così importante e che la connessione con i bambini sia così potente. Loro sono in grado di spiegare i problemi complessi ai loro genitori. Devi tornare alla tua infanzia per capire davvero. L’educazione è il grande punto e questa generazione è davvero in grado di fare il cambiamento se saremo in grado di dare loro gli strumenti.
Potresti raccontarmi di altri momenti significativi avvenuti durante la tua ricerca?
Poiché Humanae è un percorso, cambia ogni volta che incontro qualcuno di nuovo intorno a questo lavoro. Ogni volta ho fatto delle open call e non avevo idea di chi avrei fotografato. Ma davvero ogni foto è speciale per me. Le persone entrano nel mio studio e si mettono in questa posizione vulnerabile per dirmi cosa li collega a questo lavoro, cosa li collega alla mia storia. Tutte mi hanno parlato della loro storia personale intorno a questo progetto o della disumanizzazione che stanno percependo nel mondo. Ricordo esattamente il giorno in cui una donna è venuta nel mio studio con i tacchi alti e mi ha chiesto: “Hai qualche transgender nel tuo lavoro?”. E’ stato il momento, ad esempio, in cui mi sono resa conto di aver creato uno spazio in cui le persone possono essere naturalmente se stesse. La conversazione con loro mi fa davvero imparare e crescere. Prima di Humanae pensavo alla mia identità come a un albero con radici diverse. Le radici della discendenza africana, le radici indigene autoctone, le radici europee. Ma mi sono accorta che questo albero con radici non è proprio quello che sono. Attraverso questo lavoro ho capito di essere più come una specie di montagna con una base creata dalla mia identità, il luogo in cui sono nata che ha creato gli strati che porto e il luogo in cui vivo e i luoghi che ho visitato durante i miei viaggi che mi stanno facendo crescere ogni giorno portando un po’ di sabbia da ogni persona che ho incontrato. Questo è il modo in cui posso crescere. Ogni volta che parlo con qualcuno imparo qualcosa degli altri e di me allo stesso tempo. L’esperienza significativa di Humanae è proprio scoprirlo. Non c’è stato un grande momento clou ma scopro che il progetto cresce e io cresco con esso continuamente. E non si tratta solo di me. Tutti noi siamo queste montagne. Come una catena montuosa. Noi siamo così. La sabbia delle altre montagne può arrivare sulla mia e viceversa così come i semi degli alberi. Questo è il dono che Humanae mi ha fatto, la più grande esperienza.
Come pensi che l’arte possa aiutare le persone a capire quale sia la strada giusta da perseguire per migliorare la nostra società piena di divisioni e conflitti?
Quando parliamo di società, siamo tutti parte del gioco. Mi chiedo sempre: qual è la mia responsabilità rispetto a tutto l’odio che abbiamo intorno? Le persone hanno paura di perdere loro stesse in tutta questa diversità. Quello che penso davvero è che quando il linguaggio verbale non è più in grado di unire le persone, quando parliamo e nessuno ascolta o noi non ascoltiamo, devo davvero credere nel potere dell’arte di creare questa connessione. Una persona mi ha mandato una mail e mi ha raccontato di essere cresciuto in una famiglia appartenente al Ku Klux Klan. Mi ha detto che le mie foto mostrano quanto siano assurde queste credenze. Non si tratta solo della fotografia ma della missione di Humanae. L’arte ha sempre avuto il potere di essere strumento educativo per dire alle persone come possono fare del bene. E’ anche però soprattutto esposta in uno spazio ristretto. Io sono favorevole all’arte nello spazio pubblico perché se vuoi davvero metterla in connessione con la nostra società e generare un dialogo devi esporla dove le persone possano vederla. E non dover accedere a un posto speciale. Fare arte fa parte della nostra società. Abbiamo bisogno di questo. Penso che le grandi istituzioni debbano davvero aiutare questo processo. Con Humanae possiamo davvero creare qualcosa di costruttivo insieme e mostrare quanto l’arte sia parte essenziale della società.
Quali progetti futuri hai ora?
In questo momento mi sto concentrando sugli adolescenti. Sto lavorando in diverse scuole in Spagna che sono classificate come a basso rendimento, cioè sono scuole piene di migranti. Sto ritraendo gli adolescenti per cercare di capire cosa significa essere spagnole ed europei quando hai così tanti background, così tante storie dietro di te. Non si tratta solo di razza e di colore, ma di come la loro identità stia cambiando in questo mondo. Sono davvero affascinata dagli adolescenti. Ora lo stanno diventando sempre più precocemente, è tutto molto diverso da quando lo eravamo noi. Quindi i miei progetti per il futuro è di continuare ad esplorare la mia identità cercando di esplorare l’identità degli altri. Parto da una mia domanda personale e cerco di dare una risposta attraverso il lavoro con gli altri.
Quando ci siamo conosciuta a Bologna hai condiviso con me un pensiero su cui ho riflettuto molto. “Il bianco è associato alle cose buone, il nero alle cose cattive”. Perché è avvenuto questo?
Se pensi a tutto il continente americano, le persone schiavizzate e gli indigeni avevano la pelle più scura. Quindi in quanto indigeno nativo venivi considerato discendente dagli schiavi. Se pensiamo invece all’Europa tutte le colonie sono in Africa. In Asia, Cina, Giappone e Corea se una persona ha un tono della pelle più scuro è associato a qualcuno che lavora nei campi. Quindi sei considerato nel ceto più basso. Lo stesso accade in India. Se pensi alle caste, quella chiara viene considerata una casta migliore rispetto a quella scura. Se ci spostiamo poi sul continente africano notiamo che esistono lì alcuni prodotti che noi non abbiamo in Europa e che aiutano a schiarire la pelle. C’è stato un momento della storia in cui con il termine barbaro veniva indicata una persona che non era civilizzata senza associare il termine al colore della pelle ma appunto al comportamento. Poi c’è stato il periodo di Isabella Cattolica che voleva “umanizzare” gli indigeni attraverso la fede Cristiana e la loro conversione. E poi c’è stato un momento, di cui abbiamo i riferimenti in pittura, in cui abbiamo prodotto una narrazione dove veniva affermato che loro, gli indigeni, le persone scure di pelle sono meno umane, sono persone senza anima. Ed è per questo che possono essere schiavizzate. Creando questa narrativa ci siamo diffusi in tutto il mondo in modi diversi. La narrazione di essere bianchi è collegata in modo più approfondito con la storia della colonizzazione avvenuta in questo Pianeta. E questa storia solleva un tipo di visione non reale.
Cover foto di Bret Hartman
Attualmente esistono più di 4000 immagini nel progetto. Sono state scattate in 36 città, in 20 paesi diversi: Arteixo, Madrid, Barcellona, Getxo, Bilbao e Valencia (Spagna), Parigi (Francia), Bergen (Norvegia), Winterthur, Chiasso (Svizzera), Groningen, The L’Aia (Paesi Bassi), Dublino (Irlanda), Londra (Regno Unito), Tyumen (Russia), Gibellina e Vita (Italia), Vancouver, Montreal (Canada), New York, San Francisco, Gambier, Pittsburgh e Chicago (USA), Quito (Ecuador), Valparaíso (Cile), San Paolo e Rio de Janeiro (Brasile), Córdoba (Argentina), Nuova Delhi (India), Daegu (Corea del Sud) Wenzhou e Shanghai (Cina), Ciudad de México, Oaxaca (Messico) e Addis Abeba (Etiopia).
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