Italia e Giappone, diecimila chilometri che si potrebbero coprire mettendo in fila tutte le prelibatezze di ognuno dei due Paesi, dalle tipicità degli ingredienti ai metodi di preparazione, alle innumerevoli specialità regionali ai tipi di spezie utilizzate.
Negli ultimi anni il Giappone è stato il nuovo foodtrend europeo, con locali di ramen e sushi sorti come funghi in ogni angolo ma in cosa consiste davvero l’esperienza culinaria giapponese?
Tutto qui è regolato dalle contraddizioni: ad esempio ci si può ritrovare a fare una toccata e fuga solitaria in pausa pranzo in uno standing sushibar, per poi concludere con una cena tra amici attorno a un tavolo di shabu shabu (letteralmente il rumore della carne che rapidamente si cuoce nel brodo), cuocendo vari tipi di carne e verdure per un’esperienza decisamente più conviviale.
Al di fuori del Paese c’è poca consapevolezza sui molteplici metodi di cottura e sulla trasformazione dei cibi, si tende a pensare che in Giappone “sia tutto crudo”. Niente di più sbagliato: se è pur vero che gli ingredienti spesso non vengono trattati in alcun modo, nemmeno con una marinatura ma lasciati il più puri possibile, è anche vero che il Giappone è la patria del fritto più croccante e leggero che esista: la tempura. Ho avuto occasione di poter andare a Kyoto in uno dei ristoranti più famosi del Paese, situato in un’ ochaya (casa da tè) restaurata nel quartiere di Gion, dove si prepara esclusivamente tempura che si può degustare con una dignità che al fritto spesso non si concede, indelebile com’è nelle nostre menti di piatto grasso e pesante. Alzandomi dal tatami, quella sera, ho sentito di aver appagato il senso della vista, il gusto, di aver fatto un’esperienza che trascendesse il solo mangiare ma che andasse oltre, un’esperienza che coinvolgesse tutti i sensi e li trasportasse in una dimensione di equilibrio e benessere.
Altro principale metodo di cottura è la piastra o yaki che è un po’ come il nero, ci sta bene tutto: il manzo, il pesce del giorno, le verdure con la soba ma anche i più famosi okonomiyaki, impressi nei nostri cuori grazie a Kiss Me Licia, letteralmente “ciò che vuoi, alla griglia”. E ditemi se questo non assomiglia almeno un po’ al paradiso di ogni ghiotto che si rispetti.
Quello che colpisce chiunque, ad ogni pasto, è l’esplosione di colori, di forme, la cura con cui vengono preparati i piatti, non importa dove ci si trovi, se in un ristorante di alta classe o in un izakaya (i pub tipici, che preparano piattini di degustazione, dove la sottoscritta brama edamame e birra fresca).
L’estetica dell’equilibrio tra le parti, tra i colori, le consistenze e i sapori sono infatti espressi ovunque, da una ciotola di riso con carne e uovo ai meravigliosi bento che studenti e impiegati si portano da casa, accuratamente preparati dalle mogli o dalle mamme che fanno a gara per vedersi riconosciuta l’originalità, la cura e l’eleganza della composizione.
Menzione speciale per quella che personalmente ritengo una categoria ben poco considerata, ad altissima concentrazione di principi nutritivi e di uso quotidiano e poco conosciuta oltreoceano: la verdura fermentata o pickels. Una categoria alimentare che gode di una vasta gamma di prodotti fermentati in Giappone è quella degli ortaggi: umeboshi, (pugne), il daikon che viene trasformato tramite la fermentazione in takuan, le mezzelune gialle croccanti e acide che troviamo al ristorante insieme al sushi e al gari, lo zenzero sott’aceto, onnipresente in ogni ristorante di sushi in tutto il mondo.
Non per niente è giapponese il termine umami, il quinto dei sei gusti fondamentali.
Ma che cos’è l’umami? Avete presente quell’irresistibile attrazione per il sapido, la voglia che ci viene di mangiarci una forma intera di parmigiano, uno spaghetto con la colatura di alici, il gusto del pomodoro maturo? Identificato nel 1909 da Kikunae Ikeda – professore presso l’Università Imperiale di Tokyo – nel brodo dashi, esso è un concetto imprescindibile che va bilanciato al dolce, al salato, all’amaro e all’aspro e che si ritrova nei funghi shiitake, nel miso e nella salsa di soia ingredienti alla base di ogni piatto del Sol levante.
Ultimo, come i re, ecco l’ingrediente base, l’oro del Giappone: il riso, immancabile in ogni pasto, dalla colazione tradizionale alla cena, accompagna le pietanze salate ed è la base dei dolci tipici ( i buffissimi mochi, per citarne uno). Dagli onigiri alle famose ciotole di riso sormontate di carne, verdure e alga nori, dal sushi al curry rice (di certa commistione indiana eppure ormai piatto tradizionale giapponese) il riso è protagonista, diventando un letto su cui adagiare ogni sapore per potergli dare ancora più impatto e giustizia, una tela bianca sulla quale inventare ricette di recupero e perché no, sperimentare.
Rendere in poche righe l’idea e la vastità di una cucina ancorata orgogliosamente alla cultura contadina è impensabile e così, dopo questa infarinatura di termini e nomi e di dettagli tecnici vi do appuntamento al prossimo articolo per esplorare assieme a me la parte divertente e giocosa della cucina moderna giapponese, con una veloce escursione tra le cucine etniche che ho sperimentato a Tokyo che fanno parte a pieno titolo di un’autentica esperienza nipponica.
Bellissimo articolo!