La storia ci insegna, ci mostra, ci accompagna in una realtà a noi sconosciuta per osservarla, provare a comprenderla e perché no riviverla, se non da protagonisti almeno da spettatori.
E’ questo che provo quando mia madre mi racconta della sua giovinezza, delle mode passate, quando mi mostra le vestaglie che portava, le foto dei suoi viaggi: capelli lunghi, fascia tra i
capelli, pantaloni a zampa e zeppe alte. Voglia di scoprire, di divertirsi, voglia di libertà. Ma anche tanta voglia di affermare i propri ideali, di lottare per migliorare la società. Lei nonostante abbia vissuto la sua giovinezza vent’anni più tardi, ha comunque potuto respirare quell’aria nuova che proveniva dal periodo trascorso subito dopo il grande conflitto. Un periodo di recupero, di lotta ma anche di aiuto, quello degli americani, quindi di buona fortuna, di speranze, di sogni, di ambizioni tutte da progettare e da attuare. La seconda guerra mondiale aveva portato a un completo stravolgimento di tutta l’Europa e al contempo aveva fornito all’uomo la consapevolezza delle proprie infinite capacità, la possibilità di riscattarsi, di uscire da qualsiasi situazione, anche la più dura. A seguito del secondo dopoguerra quindi le persone furono catapultate in una realtà del tutto nuova, che non rispettò quella naturale e costante gradualità che, diversamente, caratterizzò i periodi storici precedenti. Dopo le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, che rasero interamente al suolo due città e migliaia di vite, nulla poteva essere più come prima e neppure il proseguimento naturale di quel prima. Tutto era da ricostruire, da rivedere, da ripensare. La filosofia esistenzialista del Novecento, che vide come promotori Maurice Merlau Ponty, Sartre, Simone de Beauvoir, rifletté sulla profonda crisi della coscienza intellettuale dell’epoca; questo filone di pensiero pose la sua attenzione sul senso e sull’assurdità di una vita che avrebbe potuto scomparire all’improvviso: la crudeltà dell’uomo e l’imprevedibilità dei fenomeni provocarono una sensazione generale di vulnerabilità e la mancanza di valori morali stabili.
L’esistenzialismo si espresse nella letteratura, in generale in ogni evento e, naturalmente, questa espressione si rispecchiò anche nella moda e nei costumi, che da sempre sono il riflesso della società. La moda e l’arte divennero quindi strumenti per manifestare, e in qualche modo “nobilitare”, i tormenti dell’epoca, per dare ampio sfogo alle speranze che
albergavano nei cuori delle persone. Negli anni del dopo guerra, fino a oggi, innumerevoli e significativi stili si susseguirono tra loro per poi confluire in un presente, il nostro, dove ogni stile si ripropone, rivisitato, ciclico ma pur sempre caratteristico della voglia di trasmettere qualcosa di unico e straordinario. Era il 12 febbraio 1947 quando Christian Dior presentò alla stampa, nel suo salone di Avenue Montaigne, la sua prima collezione. La capo-redattrice di Harper’s Bazaar, Carmel Snow, che già aveva notato lo stilista, rimase colpita dalle sue creazioni ed esclamò: “Mio caro Christian, i suoi abiti hanno un tale new look!”.
Questo termine, che accompagna tutt’ora lo stile della maison, segnerà una nuova era per la
moda in Europa e in tutto il mondo. La guerra era finita da due anni e Dior, con questa collezione così rappresentativa del suo talento, segnò una svolta che lascerà indietro la cupezza, le uniformi, le restrizioni, la rigidità delle forme vigenti durante il periodo bellico. Il suo desiderio fu quello di restituire alle donne, con serietà e professionalità, il gusto per la leggerezza e l’arte del piacere mettendo in risalto le proprie forme. E’ vivido il suo ricordo, durante la prima guerra mondiale, di donne che sfogliavano le riviste parigine e sognavano di poter indossare quegli abiti. Lui volle restituire alle donne la gioia di sognare, di piacere e di piacersi. Icona del New Look è il tailleur Bar. A questo proposito disse: “Volevo che gli abiti fossero “costruiti”, modellati sulle curve del corpo femminile del quale avrebbero stilizzato le forme. Sottolineavo la vita e il volume dei fianchi, mettevo in evidenza il petto. Per dare più struttura ai miei modelli feci foderare quasi tutti i tessuti di percalle o di taffetà, riprendendo così una tradizione da tempo abbandonata”.

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Fino ad allora la realizzazione di abiti era principalmente affidata alle sartorie artigianali. Con questa collezione Dior aprì una nuova epoca. Grazie al sostegno e all’influenza degli americani, si poterono migliorare le tecniche di tintura e di fissaggio dei tessuti. Questo portò a un totale cambiamento nell’industria della moda. Gli anni Cinquanta segnarono degli stili intramontabili. E’ il decennio in cui si affermarono i bustini stretti, le gonne ampie, oggi riproposte in innumerevoli passerelle dell’haute couture, e la fantasia a pois. E’ il periodo
d’oro per i film di Fellini e per celebrità come Merlyn Monroe con il suo inconfondibile stile sensuale da pin up e Grace Kelly dall’allure più elegante e raffinata. Gli anni ’60 si
caratterizzarono invece per essere un periodo rivoluzionario dai maggiori sconvolgimenti sociali. I giovani di questa generazione desideravano come non mai contribuire alla società, far sentire le loro voci, esprimere liberamente la loro identità. Soprattutto le donne che iniziarono ad affermare la loro piena emancipazione. Questa dinamicità toccò inevitabilmente anche il panorama della moda: lo stile hippy, il mood rock, la nascita della prima musica pop influenzarono sicuramente il modo di vestire e l’irrompere di nuovi linguaggi visivi. Nacque il jersey, il lurex e si diffuse l’uso delle calze collant grazie all’ideazione della minigonna. Pare che la stilista londinese che la ideò, Mary Quant, disse: “Sono state le ragazze della King’s Road ad inventare la mini. Io stavo facendo abiti semplici e giovanili, con cui era possibile muoversi, con cui si poteva correre e saltare e li avrei realizzati della lunghezza voluta dalla clientela. Io li indossavo molto corti e la clientela diceva “Più corti, più corti”. Twiggy l’icona simbolo della “Swinging London” venne scelta da Mary Quant per indossare le sue minigonne. Nacquero gli ideali di pace e di rispetto assoluto per la vita non più solo pensati ma anche espressi in tutte le forme possibili. I motti come “Peace and love” degli Hippies sorsero come segno di protesta alla guerra scoppiata in Vietnam, e divennero per sempre un punto di riferimento per le generazioni successive.
Verso la fine degli anni sessanta anche le passerelle dell’haute couture furono promotrici e sostenitrici dell’emancipazione femminile. Nel 1968 Yves Saint Laurent propose per la prima
volta le sahariane, dando vita così all’ideale di donna moderna, colei che vive in un mondo dalle frontiere espanse, che può viaggiare ovunque. Dal camouflage alle pellicce sintetiche, dai pantaloni a vita bassa a quelli a sigaretta, dalle gonne a palloncino alle stampe a righe, dalle borchie al bon ton, dai sandali alla schiava alle ballerine… in questo scenario che mixa stili oggi vediamo sfilare in passerella vere e proprie opere d’arte che si aprono a continui intrecci culturali. La moda è divenuta un’espressione globale, creativa ad ampio respiro. Oggi ognuno, seguendo la propria personalità, può ispirarsi, realizzare, mescolare, inventare e osare. Il cuore, il succo della moda, la sua essenza è permettere alle persone di liberare pienamente la propria identità nel rispetto di tutto e di tutti senza il timore di esprimere ciò che si è. Vivere fino in fondo la propria diversità e quindi la propria irripetibile unicità. Essere alla moda non vuol dire quindi seguire quello che il mercato impone. Indossare tutti lo stesso modello di cappotto o di gonna. Essere alla moda significa scoprire se stessi e affermare ciò che si è. Vivere in coerenza con ciò che siamo per provare gioia e libertà. Come disse Yves Saint Laurent “Io non sono un sarto ma un fabbricante di felicità”.
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