Foto di copertina Mitchel Raphael
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Elementi di design affini alle necessità delle donne, tutte, nessuna esclusa. Trasporti pubblici che agevolino gli spostamenti per chi si deve barcamenare tra casa, scuola, lavoro con pesanti sporte della spesa e passeggini. Strade sicure e ben illuminate che siano percorribili. Osservare con occhio attento, critico quello che fino a ieri ci sembrava normale vivere nelle nostre città e scoprire che in realtà tanto normale non lo è. C’è altro a cui possiamo ambire, altro che può rendere la vita quotidiana delle donne, degli anziani, dei disabili e di tanti altri più funzionale e auspicabilmente migliore. Escono copiosamente dalla penna di Leslie Kern, autrice di Feminist City: claiming space in a male made world uscito da poche settimane anche in Italia con il titolo Città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, gli spunti per costruire una città ideale, inclusiva, sicura e a misura di tutte e tutti. Professoressa associata di geografia e ambiente e Direttrice del programma su donne e studi di genere presso l’Università canadese Mount Allison, Kern mette in luce non solo le criticità presenti in città costruite interamente su un modello maschilista e incentrato prevalentemente sui bisogni di pochi, ma offre anche vie risolutive da percorrere, idee di ampio respiro che possano portare al centro il dovere di ascoltare e soddisfare i bisogni di tutte e tutti. Dalla città per mamme, a quella per single, alle paure che possono emergere di fronte a situazioni impreviste e pericolose, alla poca tutela da parte di chi dovrebbe proteggerci, specialmente nei confronti delle minoranze. Con estrema competenza acquisita anche grazie al suo Dottorato di ricerca, spirito critico a cui nulla sfugge e al contempo esperienze dirette in quanto donna e mamma, Kern mi ha raccontato del lavoro che possiamo fare tutti insieme, cittadini, figure professioniste, istituzioni, per realizzare una città ideale che non lasci indietro nessuno.
Nel tuo libro racconti come i moderni spazi urbani siano designati esclusivamente su misura dell’uomo, dimenticando completamente i corpi delle donne e le loro necessità come lavoratrici e madri. Come dovrebbe essere quindi secondo te la città ideale?
Uno dei pensieri che è diventato molto chiaro, soprattutto dopo la pandemia, è che la maggior parte delle nostre città non è in grado di sostenere il lavoro che le donne svolgono gratuitamente in casa per prendersi cura dei bambini, della famiglia, degli anziani… e così via. Molti servizi sociali nei nostri paesi sono ridotti e le città non hanno realmente tenuto conto di come organizzare questo aspetto. Per me uno degli elementi della città femminista o della città ideale sarà proprio pianificare questa necessità e non lasciare le donne sole. Dobbiamo anche parlare di sicurezza e permettere alle donne di esprimere le loro paure sull’ambiente urbano in modo da cambiare anche il design delle città e renderle più sicure. Un altro punto che costituisce la mia città ideale è l’alloggio. Le donne lottano per pagare l’alto costo degli affitti, soprattutto se sono single o genitori single. Il rischio maggiore è il fenomeno della gentrificazione, quindi avere un alloggio economico e di basso livello è un’altra chiave per realizzare una città femminista.
In che modo la quotidianità ha inciso sul nostro modo di vivere la città?
Un approccio alla vita di tutti i giorni è importante perché gran parte del modo in cui le donne sperimentano l’esclusione in città è proprio nella quotidianità. Viviamo difficoltà come non riuscire a correre fino all’autobus insieme ai bambini se piene di borse della spesa o non trovare il posto per cambiare il pannolino. O ancora sperimentiamo di essere fermate per strada in modi sgradevoli che possono farci sentire offese o indifese. Spesso non troviamo uno spazio in cui sentirci sicure quindi è proprio in ogni momento della giornata che viviamo situazioni che ci ricordano quanto la città non sia su misura per noi. Penso che una parte della soluzione possa nascere dal riflettere su come si sviluppa la trama della vita di tutti i giorni dunque pensare a come le persone vanno da casa al lavoro, i bambini a scuola, come siamo collegati con la nostra comunità ecc.. Spesso gli architetti e i pianificatori pensano a edifici appariscenti, a grandi progetti, a volte dimenticando nel prestare attenzione a dove sia la fermata dell’autobus per la scuola.
Il tuo libro apre bene gli occhi su come la struttura della città che viviamo tutti i giorni non sia inclusiva. Cosa possiamo fare per sviluppare uno sguardo critico e riconoscere cosa è e cosa non è adatto alle donne?
E’ proprio per questo che ho scritto il libro. Le città in cui viviamo sembrano normali perché sono sempre state così. Non prestiamo però molta attenzione alla domanda “chi prende le decisioni?”. Bisogna iniziare ad essere consapevoli che ci sono persone dietro alla progettazione del trasporto di mezzi pubblici o di un nuovo parco. Le architetture e le pianificazioni sono ancora professioni dominate da una specifica visione. Non sono sessiste ma non tengono conto della diversa esperienza delle donne e di altre persone. Il Nord America, ad esempio, è bianco e borghese e non ha progettato le città tenendo conto dell’esperienza degli immigrati o delle persone più emarginate. Dobbiamo prestare attenzione a chi prende queste decisioni e chiedere alle persone di diversa provenienza come vivono nelle città e cosa dovrebbe esserci per andare incontro anche alle loro esigenze.
Che cambiamento hai visto in questi anni su questo argomento?
Da quando è apparso di nuovo nel 2020 il movimento di Black Lives Matter sono cambiate tante cose. Abbiamo iniziato a parlare, ad esempio, dello spazio pubblico, quindi del tipo di statue, bandiere, immagini, nomi che ci circondano e di quanto essi siano rappresentativi di solo una parte della realtà… Perché quello che vediamo nello spazio pubblico racconta una storia su chi è incluso e chi no, in tutto il mondo. Anche la sicurezza nelle città è un tema importante. Noi donne abbiamo bisogno di sentirci al sicuro, di sentirci protette e avremmo bisogno della polizia per questo ma in realtà quello che sta accadendo è altro soprattutto per le donne immigrate e le donne nere. Negli ultimi anni quindi abbiamo iniziato a guardare in modo più critico a cosa rappresentano le nostre città e a dialogare su come alcuni gruppi di persone sperimentano la violenza da parte di chi dovrebbe farti sentire al sicuro.
È un messaggio forte e inclusivo. Hai un’esperienza personale significativa a riguardo?
Nel libro racconto dell’esperienza di diventare madre quando vivevo a Londra, una meravigliosa città dalle grandi diversità che ho davvero amato e di cui mi sono sentita davvero parte. Quando ho avuto mia figlia però non sono più riuscita ad andare in giro come prima. Ho subito capito che usare i mezzi pubblici con un passeggino in una città come Londra era una follia. Sebbene molte stazioni della metropolitana avessero ascensori solo cinquanta stazioni su duecentosettanta, come racconto nel libro, sono accessibili con il passeggino. Scale curve a gomito, gradini imprevisti, scale mobili ripide, tunnel stretti e migliaia di pendolari e turisti rendono il viaggio davvero un’avventura. Questo risveglio alla realtà mi ha fatto capire, anche con un certo imbarazzo, che prima di incontrare questi ostacoli non mi ero mai soffermata a riflettere sulle esperienze delle persone disabili e degli anziani. Fino ad allora avevo vissuto la città come corpo privilegiato.
Cosa possiamo fare da ora per cambiare questa realtà?
Innanzitutto aumentando la diversità di rappresentanza nelle professioni chiave ovvero politici, designers, architetti, urbanisti. Deve esserci più inclusione sul genere, la razza, la classe e così via. Più diversità ci saranno in queste professioni più potranno capire tutte le diverse esigenze. E’ veramente importante inoltre pensare ad alloggi e trasporti più adeguati alle donne. Inoltre possiamo essere coinvolti nei movimenti sociali impegnandoci in prima linea in quello in cui crediamo. Ci vuole tempo affinché avvenga un cambiamento ma occorre partire dal nostro personale senso di responsabilità.
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