In questo momento così delicato dove tante delle nostre energie sono incanalate nell’affrontare e superare un fenomeno minaccioso e inaspettato, non dimentichiamo di continuare a informarci e a porre la nostra attenzione anche su altre grandi emergenze. Più protratte nel tempo, più radicate nella nostra cultura. Se proviamo, oggi più che mai, ad aprire gli occhi possiamo scoprire che così come un virus ha la capacità di propagarsi velocemente anche le azioni virtuose, di cura, di attenzione, di ascolto e di informazione consapevole possono farlo. A due giorni dall’8 marzo ho intervistato, telefonicamente, Angela Romanin, Presidente del Coordinamento dei Centri antiviolenza dell’Emilia Romagna e Formatrice della Casa delle Donne, Bologna, per capire insieme quanta strada abbiamo fatto e quanto ancora ne dobbiamo fare sul tema della violenza di genere.
(in Copertina la Campagna di Comunicazione della Casa delle Donne, Bologna)
Domenica abbiamo celebrato il Woman International Day con dati sui femicidi ancora allarmanti. Che momento storico stiamo vivendo?
I numeri sono alti e non calano nel tempo. Guardando il rapporto Istat dell’anno scorso vediamo invece che nell’ultima decina di anni gli omicidi totali sono crollati. Gli omicidi di donne per motivi di genere rimangono circa 130 all’anno, non scendono. Questo alto numero è uno dei motivi per cui il GREVIO, il Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne, ha redatto un rapporto che descrive lo stato di applicazione della Convenzione di Istanbul in Italia. E l’Italia non ne esce affatto bene. Tra i vari punti individuati c’è la mancanza di protezione delle donne nei tribunali.
Il rapporto del GREVIO inoltre sottolinea che “la causa dell’uguaglianza di genere incontra ancora resistenze nel paese e che sta emergendo una tendenza a reinterpretare e riorientare la nozione di parità di genere in termini di politiche per la famiglia e la maternità”. Come mai nascono queste arbitrarie interpretazioni?
Invece che aiutare le donne che sono la parte soccombente nella dinamica della violenza si cerca di aiutare la famiglia. Si interpreta il fenomeno come un disagio sociale diluendo così le responsabilità. E’ un modo per oscurare il problema. Ti faccio un esempio classico. Una coppia formata da un uomo e una donna chiede aiuto ai servizi sociali. Nel momento in cui avviene la richiesta magari non indagano se all’interno della coppia c’è violenza. Questo accade per varie ragioni: o perché non sono abituati a farlo, o perché non sono formati in merito, o perché non ritengono la violenza un evento frequente nella vita delle donne e dei minori. Quindi senza indagine approfondita i servizi sociali danno questo aiuto economico richiesto. Solitamente è lui ad intascarsi i soldi per scopi che sono al di fuori del sostentamento alla famiglia. Questo fatto aumenta la disparità all’interno della coppia. Se invece indaghi sulla violenza puoi dare un aiuto mirato. In altri paesi invece come Inghilterra e Spagna l’indagine avviene di default.
A cosa è dovuto questo nostro rallentamento rispetto agli altri paesi?
Le leggi a favore delle donne sono un’acquisizione recente. Rispetto agli altri paesi scontiamo un gap di vent’anni sul trattamento della violenza di genere. Però negli ultimi anni è stato fatto molto. Siamo stati tra i primi paesi a ratificare la convenzione di Istanbul e l’abbiamo fatto l’anno prima che entrasse in vigore. Ci piace fare leggi ma poi ci perdiamo su come applicarle. Un’altra Legge importante è quella dell’Ordine di protezione, la Legge 154 del 2001 che ha stabilito l’allontanamento e il divieto di avvicinamento in caso di violenza. Un altro buon segno è il fatto che abbiano iniziato a fare indagini Istat. La violenza inoltre sta entrando nella formazione delle varie professioni. Medici, avvocati, psicologi, forze dell’ordine. Non è ancora sufficiente, non è stabilito per legge, non è ancora inserita nei percorsi curriculari, ma sono già stati fatti molti corsi. Quindi ad oggi c’è più personale preparato. Anche i territori si sono mossi. La Regione Emilia Romagna – su impulso del Coordinamento dei Centri antiviolenza dell’Emilia-Romagna – ha predisposto un Piano regionale anti violenza triennale, partito nel 2017 e che andrà rinnovato quest’anno, in cui sono stati definiti impegni precisi, anche a proposito della formazione del personale sociosanitario e del Pronto Soccorso. Questo piano è reso obbligatorio dalla Legge Quadro di parità del 2014: è una legge a mio avviso fatta molto bene, perché inquadra il problema della violenza dentro la disparità di genere e all’interno ci sono capitoli su tanti argomenti: la medicina di genere ovvero come la medicina sia improntata tutta sul corpo maschile creando così notevole disagio alle donne. Un altro capitolo è sulla rappresentanza politica, uno sulla rappresentazione mediatica e altro.
Avete affermato che però non bastano le Leggi per contrastare la cultura della violenza. Ogni cittadino e cittadina cosa può fare concretamente per attuare un cambiamento?Informarsi. Guardare i siti dei centri anti violenza e a seconda delle professionalità seguire dei corsi di formazione. Leggere dei libri sul tema. Uno degli ultimi usciti molto interessante è Le molestie sessuali. Riconoscerle, combatterle, prevenirle di Patrizia Romito e Mariachiara Feresin. Avere un minimo di informazione obiettiva e scientifica è quello che servirebbe. Il tema è troppo sommerso dai pregiudizi. Così come avviene per la paura dei migranti. Siamo più noi italiani a invadere storicamente gli altri paesi rispetto agli stranieri che arrivano adesso qua. Inoltre è importante leggere i dati dell’Istat che negli ultimi anni ha fatto molte più indagini. Una pubblicata nel 2007, epidemiologica, quella successiva dopo 8 anni. In questi ultimi 5 anni ha svolto indagini sui femicidi, una sui centri anti violenza, una sulle molestie e una uscita da poco sulla percezione della violenza.
In cosa consiste la campagna “Violenza sulle donne. In che Stato siamo?” https://www.direcontrolaviolenza.it/violenza-sulle-donne-in-che-stato-siamo/ indetta da D.i.Re – Donne in rete contro la violenza, di cui i centri del Coordinamento fanno parte? Nel diffondere l’informazione su quanto è avvenuto. Vuole mobilitare l’attenzione dell’opinione pubblica, dei media e delle istituzioni sulle raccomandazioni che il Consiglio d’Europa ha fatto all’Italia per assicurare un’adeguata prevenzione, protezione e contrasto della violenza maschile sulle donne. La Convenzione di Istanbul viene spesso citata però poi durante l’anno è come se fosse dimenticata. Il fatto che ci sia un organismo che ne monitora l’applicazione è importante. È una legge sovranazionale. Questo viene dimenticato nei tribunali come quando si accetta la Pas, presunta Sindrome da Alienazione Parentale che non ha base scientifica ma però viene usata in Italia per far affidare i bambini ai padri maltrattanti. Quando i bambini dichiarano di non voler vedere i padri perché ne hanno paura, ecco che si accusa la donna di manipolare i figli per sottrarli al padre. Viene invertito tutto, una manipolazione che è uno dei meccanismi che perpetua la violenza di genere. Nessuno mette di fronte a questi uomini le violenze che compiono. C’è una sorta di legittimazione.
Lo scorso mese di gennaio avete inoltre aderito alla campagna #Pensaci prima https://www.pensaciprima.info. Qual è il suo obiettivo?
Abbiamo proposto questi tre temi: raddoppiare e rendere strutturali le risorse ai centri anti violenza, quindi chiediamo un fondo regionale strutturale, al posto dei bandi annuali, che ogni anno garantisca contributi economici certi e proporzionali al fabbisogno di ciascun centro antiviolenza. Sostegno economico alle donne attive in percorsi di fuoriuscita dalla violenza ovvero un reddito mensile fino a un massimo di due anni accompagnato da un percorso di reinserimento nel mondo del lavoro. Un fondo regionale per coprire le spese di assistenza legale sia in ambito penale che in ambito civile. Ora aspettiamo di avere l’interlocutore giusto in Regione. Poi chiederemo un incontro.

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